Il mondo dopo Kabul

Augusto Schianchi

Concluso il ritiro degli americani e dei loro alleati da Kabul, e con la presa del potere da parte dei talebani, si apre una nuova fase nei rapporti internazionali. Mentre nel mondo si critica la confusa e tragica ritirata degli Usa (inequivocabile evidenza di una sconfitta dopo un’inutile guerra ventennale), negli Stati Uniti si è aperto un dibattito profondo sul dopo Kabul. Un dibattito che parte dall’analisi della ritirata stessa: si riteneva che i talebani avrebbero impiegato almeno sei mesi (e forse più) a riconquistare l’intero Afghanistan, mentre tutto è accaduto in pochi giorni, con la dissoluzione completa dell’esercito afghano, peraltro addestrato da almeno 10 anni dalle forze alleate. 
L’interpretazione si concentra almeno su 3 punti.


Primo, la decisione di invadere l’Afghanistan da parte della presidenza Bush è stata corretta (approvata dalla quasi unanimità del Congresso americano), ma la sua esecuzione è stata terribile. Perché non sono mai stati fissati obiettivi strategici chiari (cosa vogliamo ottenere invadendo l’Afghanistan, oltre a eliminare il terrorismo responsabile dell’attacco alle Torri gemelle); con una strategia militare approssimativa, semplicemente finalizzata a spazzare via i nemici, affidata al vice Dick Cheney ed al peggior ministro della Difesa della storia americana (copyright l’«Economist») Donald Rumsfeld. Continui cambi di strategia sul campo, alternanza di generali al comando, più nello stile degli allenatori di squadre di calcio. 
Successivamente la presidenza Obama, anche questa incerta dopo l’uccisione di Osama Bin Laden: prima l’idea di ritirarsi, con riduzione dei soldati sul campo, poi un aumento degli stessi, fino a 100.000 soldati. L’idea di restare, senza avere ben chiaro cosa fare dopo.


Non ultimo, il trattato di pace firmato da Trump con i talebani: se il tuo obiettivo dichiarato è ritirarti, è chiaro che non hai potere contrattuale nella trattativa, perché il nemico - i talebani - avrà un’unica risposta, «prego accomodatevi» (ad andarvene). Con la furbizia di Trump di posticipare il ritiro al maggio di quest’anno (esteso poi al 31 agosto), con la responsabilità del ritiro a carico della nuova amministrazione, cioè del presidente Biden, che con l’Afghanistan non c’entra nulla. In questa situazione chiedersi poi come mai l’esercito afghano si sia volatilizzato è banale: i militari afghani sapevano benissimo che senza il supporto americano non avrebbero avuto speranze di farcela. Ma allora perché combattere? Meglio anticipare la fine con un compromesso salvavita. Una decisione molto ragionevole.
Le assai probabili dimissioni degli Stati Uniti da “poliziotto del mondo” certamente faranno felici gli “anti-americani per principio”, e questo ci sta. C’è sempre qualcuno che sta contro il primo della classe.


Probabilmente saranno meno felici i cinesi e russi. Oggi gioiscono (tutto sommato anche moderatamente, ben consapevoli delle conseguenze) della sconfitta americana. Ma se viene a mancare il leader del mondo, non c’è più nessuno a cui addossare la responsabilità globale di tutto. D’ora in poi, ogni grande paese dovrà assumersi la propria quota di responsabilità; e questo per funzionare avrà bisogno del coordinamento tra tutti i paesi principali. 
Ma il coordinamento può procedere solo per compromessi, e questo è difficilissimo da realizzare, perché ogni paese sosterrà di avere alcuni diritti “inalienabili” (anzitutto quello di svilupparsi, anche a danno del cambiamento climatico).


Con il loro impegno in Afghanistan, gli americani hanno nel frattempo perso la Siria (e la Crimea) a favore dei russi (adesso a rischio c’è l’Ucraina). Hanno perso buona parte dell’Africa a favore della Cina. E ora c’è a rischio Taiwan e l’area del Pacifico. A ben vedere, eliminato Bin Laden, l’Afghanistan per gli Usa è stato un inutile (e dannoso) diversivo.
Per l’Europa la nuova situazione è persino più problematica: si pone il problema di come in futuro partecipare alla Nato, non tanto sulla base dei valori condivisi, ma su quello ben più pratico dei soldi da metterci. Con quali obiettivi, un esercito comune? Sarebbe fantastico, ma per fare cosa? Una discussione su questa visione strategica deve ancora cominciare: l’Europa come una grande Svizzera neutrale e dedita solo al commercio (come vorrebbero parte dei tedeschi)? Oppure un‘Europa nuovo secondo pilastro rafforzato della Nato, con una presenza attiva nel mondo?


Gli Stati Uniti da oggi si mettono in disparte per affrontare meglio i loro problemi: il Covid, le diseguaglianze interne (razziali ed economiche), il rafforzamento della democrazia americana nell’equilibrio dei poteri; in campo internazionale la lotta al cambiamento climatico e la stretta tutela dei loro interessi diretti: a partire dalla lotta al terrorismo, dalla cyber-sicurezza e dal confronto a tutto campo con la Cina. I paesi che emergono dalla sconfitta americana, anzitutto Russia e Cina, potranno gioire per poco: il peso delle loro responsabilità future è ben più gravoso del piacere intimo di assistere alla sconfitta dell’avversario. È stata solo una sconfitta in un paese lontano, montagnoso, da sempre arena di lotte tribali, per gli Usa sostanzialmente insignificante. Il campionato è ancora lungo.