Il calo delle nascite e gli effetti sulla ricchezza
Il calo delle nascite, in verità non solo in Italia, evidenziato con chiarezza nel Convegno dei giorni scorsi, avrà conseguenze di lungo periodo non irrilevanti.
Per tanti il calo delle nascite in Italia è una benedizione, nell’ottica del proverbio «poca brigata vita beata». Ma - come è stato evidenziato da tutti gli intervenuti, a cominciare da Papa Francesco e dal presidente Draghi - non è proprio così.
Anzitutto con il calo delle nascite diminuisce il Pil totale, per la semplice ragione che il Pil è il prodotto del numero di occupati per la quantità di prodotto realizzata da ciascuno. Se il numero degli occupati diminuisce perché diminuisce il numero di chi offre il proprio lavoro (per effetto del calo demografico), il Pil non può che diminuire. Se si riduce il Pil (o non cresce in misura adeguata) si hanno effetti a cascata. Il debito pubblico diviene insostenibile (in rapporto al Pil), come succede ad un’impresa che vede ridurre il fatturato. Il calo del Pil riduce l’incasso dei contributi per il pagamento corrente delle pensioni. Riduce il prelievo fiscale, con conseguente mancanza di risorse per la sanità, la scuola, la ricerca. Il caso del Pil conduce alla decrescita, in questo caso, in-felice. L’intero impianto della struttura statale e sociale scricchiola.
I Il presidente Draghi, con gli altri intervenuti, hanno indicato chiaramente le vie d’uscita: un rafforzamento robusto per le politiche di sostegno famigliare (a partire dall’assegno unico per i figli), e nuove politiche per l’accesso al mercato del lavoro di persone che oggi ne stanno fuori. Pensiamo ai Neet (giovani che non studiano e lavorano, il 30 percento del totale), e soprattutto alle donne. Se ne parla da decenni, ma la nostra differenza rispetto agli altri paesi europei rimane troppo elevata. Con l’aggravante di un paradosso: i posti di lavoro disponibili ci sono, ma non vengono occupati perché talvolta mancano le competenze necessarie, in altri casi una forte motivazione per avviarsi al lavoro e costruirsi un profilo professionale. Si ripiega troppo sui lavoretti, magari integrati dai vari redditi di emergenza disponibili. Le ragioni per le quali c’è questo scarto nel mercato del lavoro, tra offerta di lavoro e domanda di lavoro da parte delle imprese, sono tante, ognuna valida per una visione parziale. Risultano profetiche le parole di Aldo Moro: «La stagione dei diritti sarà effimera, se non vi sarà la stagione dei doveri».
Purtroppo, l’effetto della siccità demografica non finirà qua.
Quando l’offerta di lavoro si dirada, crescono i salari. Nel trecento con la peste la popolazione si ridusse di un terzo, altrettanto l’offerta di lavoro. I salari crebbero ed in molti lasciarono le attività agricole marginali. I servi della gleba si trasferirono in città, e divennero artigiani e mercanti, rilanciando la grande stagione del Rinascimento. Quando i salari crescono, le imprese investono in nuove tecnologie riducendo la domanda di lavoro. Ma queste nuove tecnologie richiedono nuove abilità professionali, che richiedono un’adeguata preparazione scolastica (oltre che di formazione sul campo). Con un rischio che ci riconduce al problema di prima: i giovani sono preparati, sul piano della preparazione e motivazione, ad affrontare la sfida? Perché se così non fosse, la nuova stagione a crescita demografica azzerata rischia di tradursi in diseguaglianze sociali crescenti, forse insostenibili.
Ma non è scritto che il nostro futuro sia costituito da tanti anziani con la pensione minima, pochi giovani, e tanti immigrati socialmente non integrati.
Possiamo immaginare un futuro con tanti (speriamo) anziani con una vita decente; un buon numero di giovani (cresciuti con il sostegno fiscale dello stato), che hanno lavori qualificati con salari elevati, con alta produttività; e un’immigrazione benvenuta, integrata socialmente con consistenti risorse pubbliche.
Le chiavi di questo futuro positivo allora sono due: gli investimenti innovativi delle imprese ed una scuola che produca formazione con competenze adeguate alle sfide.
Un’utopia? Forse. Ma è l’unica strada per non scivolare nella decadenza prima demografica e poi sociale e culturale. Con l’aggiunta di un ingrediente indispensabile, la fiducia nei nostri giovani, che sono meglio di quanto talvolta si possa pensare.