La tassa di successione: un terreno minato
«Vi do una notizia e un invito: ho abolito la tassa di successione. Venite a morire in Italia». Era il 2003 e Silvio Berlusconi provocò larghi sorrisi a Wall Street.
La tassa di successione, aumentata da Prodi e azzerata dal Cavaliere, riaumentata dopo la sua caduta, in Italia va dal 4 all’8 per cento. Viene invece applicata con percentuali affatto esigue, in Francia, Germania, Inghilterra e Spagna. A seconda della consistenza può arrivare fino al 60 per cento. Ogni anno il nostro Fisco incassa 820 milioni di euro.
In Francia il gettito è di 14 miliardi; in Germania 7 miliardi; 6 in Inghilterra; e in Spagna son già 3,3! Il catalogo degli scarsi introiti nostrani continua con un esempio lampante. Poniamo che un genitore lasci al proprio figlio un’eredità del valore di 1 milione di euro. Da noi la franchigia di 1 milione fa sì che l’erede non paghi un euro. In Spagna dovrà alleggerirsi di ben 335 mila euro; in Francia 270 mila; in Inghilterra 245 mila e in Germania 115 mila.
Enrico Letta, segretario del Partito democratico, è un uomo pacato e colto, parrebbe di temperamento flemmatico, meditativo. Poi se ne esce con una proposta su un argomento che più alienante simpatia non si può.
Propone di inasprire la tassa di successione sui patrimoni che superino oltre i 5 milioni di euro, per dare 10mila euro a 280 mila giovani. Il premier Mario Draghi l’ha liquidato in fretta: «E’ tempo di dare, non di prendere». Ma l’ex presidente del Consiglio non demorde. E ha ingaggiato un duello con Matteo Salvini, il quale vince a mani basse il primo assalto: «Nuove tasse? Sì, ma non a carico degli italiani, pur ricchi che siano.
Ma che costringano a pagare il giusto i colossi della nuova economia, le multinazionali straniere come Amazon, che fanno affari in Italia e non pagano le tasse».
Le tasse. Piccolo excursus sulla fobia antifisco radicatasi nel Belpaese in saecula saecolorum. Una tassa che fa fiasco è quella sul lusso.
Per evadere il pagamento del tre per mille, si seppelliscono i gioielli, si sposta altrove la fuoriserie di gran valore, e si nega di avere alle dipendenze un domestico o una badante.
Una normale strategia antifisco? Sì e siamo nella Roma del 215 a.C., la fuoriserie era la biga, il domestico era lo schiavo. Imposta per finanziare la Seconda Guerra punica, la tassa restò poi in vigore, odiatissima e in gran parte evasa.
Duemila anni dopo, a Roma, in Parlamento: «Imposte, imposte, null’altro che imposte. La corda della pazienza per le tasse e relative molestie è arcitesa; ci vuole più poco a strapparla del tutto», avverte il ministro delle Finanze, Quintino Sella. Siamo nel 1870, l’Italia appena Unita è fortemente indebitata a causa delle tre guerre d’Indipendenza. Le tasse sono salatissime: rispetto al periodo pre-unitario un romano paga il 63 per cento in più; un piemontese il 42; un napoletano il 125 e un lombardo il 130 per cento.
Risultato? Una vastissima elusione ed evasione fiscale: circa la metà dei contribuenti cerca di sottrarsi a un dovere, svuotato dall’entità esagerata della pretesa, e reso quasi un diritto.
E uomo colto, docente universitario, il Letta conoscerà senza dubbio Adam Smith che nel 1789 scriveva: «In quegli Stati in cui esiste un generale sospetto che molte delle spese pubbliche non siano necessarie e che le entrate pubbliche vengano utilizzate male, le leggi che le proteggono vengono poco rispettate».
Certo, questa considerazione non assolve i grandi né i piccoli evasori, quali pare che siamo noi italiani, capaci di frodare il Fisco in enorme misura, secondo certe stime, per un mancato versamento annuale di 110 miliardi.
Ma come non riflettere, senza pregiudizi e superstite spinte ideologiche, sulla situazione nella quale siamo da anni? Un debito pubblico di spaventosa entità.
E poi in fila: burocrazia mostruosa, malversazione, corruzione dilagante, scandali su scandali, centinaia di parlamentari indagati, alti ufficiali della Guardia di Finanza fini agli arresti, processi che durano dieci anni, abusivismo edilizio, voto di scambio; mafia, camorra e ‘ndrangheta che spadroneggiano nelle quattro regioni d’origine e si sono insinuate nei gangli dell’economia e del potere politico.
Professor Enrico Letta: massima solidarietà per gli attacchi grevi subiti, ma le battute crudeli e i ‘calembour’ fioriti sul suo cognome se li è andati un po’ a cercare. «Letta non ci alLetta». «Enrico barzelLetta». Le tasse sono terreno minato. Strano che un uomo avveduto come lei non se l’aspetTasse.