Brutte notizie, giornalisti e limiti oltrepassati
VITTORIO TESTA
Basta brutte notizie! Almeno sotto le feste, già tristi di per sé e falcidiate dal coronavirus. C’è tutto un mondo di persone perbene, di cose stupende, di storie bellissime, ma voi giornalisti ve ne infischiate. E’ un’accusa che ci piove tra capo e collo almeno una volta al giorno, da anni, via via con crescente intensità, sdegno e livore. Ormai si discute e si giudica per categorie, i medici sono così, gli avvocati cosà, i commercianti lasciamo perdere…
Brutta razza, i giornalisti, cacciaballe e pennivendoli, falsari. Dici di non aver mai preso una querela? Allora i casi sono due: o sei corrotto o sei un pusillanime che si autocensura. Tertium non datur…? No, no la terza ipotesi c ‘è eccome se c’è , ed è forse la più dignitosa di questi tempi grami : allora sei un incapace. Il dramma è che tutti hanno ragione e nessuno ha torto. Una volta, parliamo di una stagione vicina che oggi sembra lontana come il Paleolitico, l’informazione aveva un peso, un ruolo e spazi minimi, nella vita delle persone. Erano giornali, radio e tv ricettori di notizie verificate scrupolosamente; i direttori badavamo molto allo stile, alla capacità di scrittura, all’aspetto , all’abbigliamento. Le cronache dei grandi fatti erano nelle mani e nella penna di giornalisti e scrittori di altissimo livello, Dino Buzzati, Orio Vergani, Indro Montanelli per esempio.
Mi rendo conto, mentre scrivo, che qualcuno mi giudicherà un vecchio trombone saccente: ma certi colleghi che si presentano in tv conciati come naufraghi appena rivestiti dalla Caritas con accenti e voci ineducate, spesso non bene comprensibili, sono null’atro che una mancanza di rispetto del pubblico: che paga! aggiungo per completare l’autoritratto di un «qualunquista», come si diceva nel Mesozoico.
Ma al di là delle singole sciatterie, il discorso si fa serio. Sì, è vero, noi giornalisti siamo portati a privilegiare le storie dagli ingredienti forti. Vige ancora la vecchia regola delle Tre Esse: e cioè che la notizia vale a seconda del combinato disposto delle sibilanti attrattive, sesso sangue soldi. Ad essere cambiati sono la quantità delle immagini e, soprattutto la loro qualità la cui valutazione di legittimità alla diffusione è determinata dal «comune senso del pudore», astrazione incodificabile al giorno d’oggi: dove e quali sono i limiti oltrepassati i quali l’immagine reca un vulnus alla società? Il telegiornale che all’ora di pranzo manda in onda il rotolare della testa - velata dalla pecetta! - del sacerdote sgozzato? Le immagini di rapporti intimi nella casa del Grande Fratello? La bonazza che alle quattro del pomeriggio fa felice la casalinga, i figli e il nonno, spiegando perché senza biancheria intima si sente più a suo agio?. Per non parlare dei servizi di nera e horror, le pozze di sangue, i cadaveri in primo piano, un grandguinol quotidiano. E il pubblico, cioè tutti noi, che guarda e gode. Sì perché l’uomo, cioè tutti noi, prova piacere a fare il male e a guardare chi fa il male. «Il male - scrive Cioran - al contrario del bene ha il duplice privilegio di essere affascinante e contagioso».