Choc in diretta: fu la tv a scandire gli eventi

Paolo Ferrandi

Le immagini di quanto accaduto l’11 settembre abitano ancora il nostro immaginario. 

Le immagini di quanto accaduto l’11 settembre di vent’anni fa abitano ancora il nostro immaginario come se tutto fosse accaduto solo pochi giorni fa. Il Boeing che entra nel grattacielo e praticamente lo taglia come un coltello nel burro in uno sbuffo di fuoco e di fiamme è così presente nella nostra mente che un artista bravissimo a servirsi delle figure del nostro inconscio collettivo come Maurizio Cattelan lo ha riproposto - in stile enorme monolite nero di 17 metri - nella sua mostra «Breath, Ghosts, Blind» in questi giorni al Pirelli Hangar Bicocca di Milano. E del resto il filosofo francese Jean Baudrillard parla dell’11 settembre come di un «evento assoluto», o meglio della «madre di tutti gli eventi».

Come la maggior parte dell’esperienza che accumuliamo nella nostra vita questo «evento assoluto» è stato mediato dai mezzi di comunicazione di massa e ne riflette, in qualche modo, la struttura comunicativa e le routine produttive. Nel 2001, la comunicazione di massa era – essenzialmente – trainata dalla tv, o meglio dalla tv modello Cnn, cioè quella delle reti all news che trasmettevano notizie 24 ore su 24 e 7 giorni su 7. Era un dominio iniziato negli anni ’90 e codificato con un altro «evento assoluto» (come si vede anche l’assolutezza non è poi così assoluta come vorrebbe Baudrillard), cioè la diretta televisiva di Peter Arnett da Baghdad mentre cadevano le bombe americane durante la prima guerra del Golfo. Se facciamo mente locale ce ne rendiamo subito conto: praticamente quel pomeriggio (in Italia, a New York era mattina) per noi fu scandito dalle edizioni straordinarie di tutte i tg di casa nostra che mimavano, appunto, lo stile della Cnn. E del resto le immagini che trasmettevano arrivavano tutte o dalle grandi agenzie internazionali o, appunto, dalle reti televisive a stelle e strisce. Quindi dobbiamo aggiungere il logo della Cnn alle immagini della tragedia che si stava consumando a New York. Una tragedia così televisiva che i quotidiani, il giorno dopo, misero in prima pagina un combo di quattro foto che descrivevano dinamicamente uno dei due Boeing che si schiantava sul World Trade Center. Anche la Gazzetta di Parma fece questa scelta.

Dopo la tv, infatti, venivano i quotidiani e l’informazione scritta in forma di giornale di carta, visto che il web era ancora marginale. E i quotidiani lavoravano, come fanno ancora adesso, sull’approfondimento. Facciamo un esempio: un'altra della serie di immagini che sono rimaste nell’immaginario collettivo è quella delle persone che scelsero di gettarsi dai piani alti dei grattacieli in fiamme. Questo particolare atroce però fu mostrato solo marginalmente dalle dirette televisive: Giulio Borrelli, allora il corrispondente di punta della Rai negli Stati Uniti, ricorda che l’ordine dell’azienda, una volta che le immagini furono trasmesse in diretta, fu di non riprenderle e anzi di parlare il meno possibile della cosa. Un atteggiamento censorio, ma dettato da un comprensibile sentimento di pietas verso le vittime. Furono le testate giornalistiche, nei giorni seguenti, a rendere iconiche quelle immagini. L’etichetta «The Falling Man», cioè «l’uomo che cade», nacque da un titolo di un bellissimo articolo addirittura di un mensile, «Esquire».

Un ambiente mediatico, quindi, già puntato sul qui e ora, sull’istantaneità delle notizie e sul commento immediato, ma ancora strutturalmente dominato dai grandi mezzi di comunicazione di massa. Le organizzazioni terroristiche stesse avevano bisogno dei mass media per veicolare il loro messaggio. Anche il loro «marketing della paura» era tagliato per le reti all news. Il problema principale, per loro, era quello di fare arrivare le cassette (audio, ma se possibile video) dei discorsi e delle rivendicazioni di Osama Bin Laden alle tv, di solito ad Al Jazeera, il canale all news panarabo. Tanto è vero che gli Stati Uniti il 13 novembre 2001, già in piena guerra al terrore e a invasione dell’Afghanistan inoltrata, colpirono con un missile gli uffici della tv a Kabul.

Come le cose siano cambiate lo possiamo capire parlando di eventi più vicini a noi, come le professionalissime - dal punto di vista tecnico - riprese delle esecuzioni di ostaggi occidentali diffuse dall’Isis tramite i suoi canali media. Documenti terribili e atroci che non arrivavano per vie traverse all’universo della tv all news, ma che venivano diffusi autonomamente nella rete, in una galassia di account sui social media e di piattaforme proprietarie. In qualche modo la comunicazione dei terroristi era diventata autonoma, anche se aveva ancora bisogno della cassa di risonanza dei media tradizionali. Era iniziata l’era dell’autocomunicazione di massa per usare un’espressione del sociologo catalano Manuel Castells.

Lo stesso campo giornalistico si è poi ristrutturato puntando sempre di più sulla centralità della Rete e sulla spettacolarizzazione spinta delle notizie. Se l’11 settembre fosse accaduto ora i frammenti video delle persone che si lanciano dalle Torri Gemelle sarebbero stati riproposti in loop e sarebbero diventati dei «memi» riproposti in tutte le salse, togliendo molto alla drammaticità delle immagini e alla loro terribile e dolente forza. Al tempo stesso forse le immagini più potenti dell’evento sarebbero arrivate dai social media con tutti i rischi che questo comporta. Per fare un ultimo esempio la foto simbolo del ritiro occidentale dall’Afghanistan - quella del comandante dell’82ª brigata aviotrasportata Usa ripreso nel verde del visore notturno, ultimo soldato alleato a lasciare il Paese - è stato diffuso dall’account Twitter dell’esercito statunitense con chiari intenti propagandistici. Una cosa che non dice nulla di buono sul giornalismo del futuro.