Quando il virus diventa un’arma di propaganda

Paolo Ferrandi

Forse qualcuno tra i lettori della «Gazzetta» ricorderà la faccia da persona perbene del generale Colin Powell, allora segretario di Stato Usa, quando, in piena seduta dell’Onu a New York, mostrò al mondo una fialetta con una polvere bianca all’interno, dicendo che era antrace (una tossina batterica letale) e affermò, con voce seria, che l’Iraq avrebbe potuto produrre circa 25 mila litri di quel veleno. Un’accusa pesantissima, fatta nella più solenne tribuna della politica multilaterale mondiale, che fu il preludio della fin troppo annunciata invasione del paese mediorientale.  Era il 5 febbraio 2003 e sembra passata una vita. Ma il gesto è rimasto nella memoria di tanti. Assieme al fatto che di armi di distruzione di massa in Iraq non ne furono mai trovate. Né antrace, né altri armi chimiche letali. E neppure del famoso programma nucleare di Saddam Hussein si trovò mai traccia. O, meglio, si trovarono i resti di uno sforzo ben avviato di dotarsi di armi di distruzione di massa che era stato, però, neutralizzato dall’azione delle agenzie dell’Onu dopo l’umiliante sconfitta di Saddam Hussein seguita all’invasione del Kuwait e alla pesantissima reazione americana. Anni prima della seconda invasione, quindi. Del resto, che il regime iracheno avesse a quei tempi armi di distruzione di massa era assolutamente palese, visto che nella guerra con l’Iran – una guerra che Saddam condusse con l’aiuto di tutti i Paesi occidentali – le armi chimiche furono usate in lungo e in largo e consentirono all’Iraq di evitare di essere battuto sul campo.

Ecco, è appunto a quell’immagine di Powell che chi scrive ha pensato quando, nell’arena meno solenne del «morning show» domenicale della Abc, l’attuale segretario di stato Usa, Mike Pompeo, ha detto che «ci sono numerose prove sul fatto che il coronavirus arrivi dal laboratorio di virologia di Wuhan». Pompeo ha poi aggiunto che la Cina «ha fatto tutto quello che ha potuto per assicurarsi che il mondo non sapesse in modo tempestivo» del coronavirus. «Questo è un classico sforzo di disinformazione comunista», ha concluso il segretario di stato Usa. 

Se analizziamo bene le parole di Pompeo possiamo notare che non si tratta di un’accusa di aver creato un virus perché questa ipotesi non regge ed è già stata smentita da numerosi studi scientifici: la covid-19 (la malattia provocata dal virus) è una zoonosi, cioè una malattia provocata da un virus (il Sars-CoV2) che ha fatto un salto di specie, probabilmente dai pipistrelli all’uomo, attraverso un altro «animale serbatoio», che non è stato ancora identificato con sicurezza. Le parole di Pompeo alludono ad altro, cioè al fatto che il virus potrebbe essere stato rilasciato accidentalmente dal laboratorio di virologia di Wuhan dove, appunto, si studiano virus con caratteristiche simili. E questa è un’altra faccenda. La Cina ha, naturalmente, smentito, e anche qui le ricerche fatte sinora tendono a rintracciare l’origine del Sars-CoV2 nella provincia del Guandong – come la Sars – e non in quella dell’Hubei, dove si trova Wuhan. Ma in via ipotetica questa accusa potrebbe avere qualche fondamento, sempre se corroborata da prove vere e non da affermazioni generiche di avere prove certe. La seconda parte del discorso di Pompeo, invece, è probabilmente vera perché Pechino, almeno all’inizio, ha cercato di minimizzare e di coprire, per quando possibile, la diffusione della malattia e il fatto che fosse possibile il passaggio da uomo a uomo. Come del resto fanno quasi sempre i regimi autoritari. Ma poi l’atteggiamento cinese è stato molto più collaborativo, tanto che la Cina ha messo a disposizione di tutta la comunità scientifica il Dna del nuovo virus. È probabile, comunque, che una politica di comunicazione più tempestiva avrebbe permesso al resto del mondo di affrontare il virus con maggior successo anche se pare che, da questo punto di vista, abbia contato di più il fatto di essere preparati da un’epidemia passata, come quella della Sars, piuttosto che dalle misure messe in campo per l’arrivo della nuova pandemia. 

E qui arriviamo alla conclusione che, purtroppo, non è molto tranquillizzante. Tra le superpotenze – quelle vecchie e quelle nuove – è in atto uno scontro non militare per l’egemonia globale che non disdegna l’arma della disinformazione. Un classico in questo caso è lo sforzo russo – da anni documentato da libri e ricerche – di attribuire l’epidemia di Aids a un virus sfuggito a laboratorio militare Usa. Un’ipotesi insensata e smentita infinite volte, ma che non è mai sparita del tutto dalla nostra memoria collettiva. O, per passare all’attualità, la voce che il coronavirus sia arrivato in Cina assieme ai soldati Usa che hanno visitato Wuhan nei mesi precedenti l’arrivo della malattia. Una voce totalmente destituita di fondamento, ma diffusa da Zhao Lijian che è il portavoce del ministero degli Esteri cinese.

L’unica speranza è che il mondo della ricerca continui nella strada della collaborazione, come è attestato dalle centinaia di studi appena pubblicati che dimostrano la collaborazione tra scienziati cinesi e scienziati occidentali. Certo che l’assenza di Stati Uniti e Russia, con la Cina defilata,  dalla «maratona» tenuta ieri, sotto l’egida di Onu, Ue e Oms, per dotare di fondi la ricerca internazionale di un vaccino disponibile per tutti, compresi i paesi più poveri del mondo, non è molto incoraggiante.