Il caso del prestito dell'Uomo vitruviano

Domenico Cacopardo

Non è una questione secondaria: l’invio dell’Uomo vitruviano di Leonardo, delle Gallerie dell’Accademia, Venezia, al Louvre per la mostra dedicata al genio, in apertura il 24 ottobre, riguarda tutti noi, amanti dell’arte o semplici cittadini del bel Paese.
Il Tar del Veneto ha, l’altro giorno, sospeso il prestito dell’opera, fissando la decisione di merito per mercoledì prossimo 16 ottobre.
Due le questioni giuridiche sollevate dal tribunale amministrativo.
La prima: il decreto legislativo 22 gennaio 2004, numero  42, Codice dei beni culturali e del paesaggio, all’articolo 66 disciplina l’uscita temporanea di opere d’arte per manifestazioni in Italia e all’estero: « … 2. Non possono … uscire: a) i beni suscettibili di subire danni nel trasporto o nella permanenza in condizioni ambientali sfavorevoli; b) i beni che costituiscono il fondo principale di una determinata ed organica sezione di un museo, pinacoteca, galleria, archivio o biblioteca o di una collezione artistica o bibliografica.» 
Ed è questo il caso dell’Uomo vitruviano di Venezia, visto che entrambi i concetti si attagliano a quest’opera fondamentale nella storia dell’arte italiana: possibili danni da trasferimento e primazia della stessa nell’ambito della galleria in cui è custodita.
Il secondo punto è di natura istituzionale-burocratica. E non è secondario. Si tratta, infatti, dell’intesa firmata dai  ministri dei beni culturali italiano, Dario Franceschini, e francese, Françoise Nyssen  con la quale è stato stabilito che l’Italia presta alla Francia, per la mostra su Leonardo, appunto l’Uomo vitruviano. Scrive il Tar che, in questo caso, ci sarebbe stata una lesione del principio che distingue gli uffici dello Stato in organi di indirizzo e controllo e organi di attuazione e gestione. Franceschini sostiene di avere in mano pareri tecnici che favorevoli al prestito, ma dimentica il disposto dell’articolo 66 del Codice dei beni culturali qui riportato.
Però, normalmente, il museo che vuole esporre si rivolge al museo nel quale è custodita l’opera, chiedendola. Si sviluppano contatti ufficiali e ufficiosi e, quindi, si definisce la sua prestabilità, in termini esclusivamente tecnici.
Il caso di specie sembra, invece, iscriversi al lungo elenco di intese ministeriali, dopo le quali o durante le quali viene acquisito un parere, appunto, di portabilità: ennesima riprova dell’incontenibile voglia dei governi di disporre delle opere d’arte per utilizzarle come strumento della politica nazionale. Perciò, se questo caso, di grande risonanza internazionale, determinerà una decisione giudiziaria, una sentenza cioè, che stabilisca i termini dell’inderogabilità dell’articolo 66 e, quindi, la non prestabilità di un’opera che costituisce il fondo principale di una determinata e organica sezione di un museo, pinacoteca, galleria, archivio o biblioteca o di una collezione artistica o bibliografica, avremo fatto un passo avanti nell’impedire, civilmente, che la politica si impadronisca dei beni artistici e li utilizzi per i suoi, anche rispettabili, scopi.
Senza essere talebani, solo rispettosi della legge, dobbiamo ribadire: il trasferimento ammala dipinti e sculture; «Viaggino gli uomini non le opere d’arte»; e, sui prestiti, l’unico dominus sia il responsabile dell’istituzione proprietaria, custode o affidataria delle opere.

 DOMENICO CACOPARDO
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