Correttezza: primo antidoto per prevenire la corruzione

È la correttezza - nei rapporti personali, nella gestione della cosa pubblica, nella vita quotidiana -, il valore da promuovere e difendere sin dalle elementari. Se si insegnerà educazione civica, un capitolo importante dovrebbe essere dedicato appunto alla correttezza, concetto che ingloba l’onestà, sua componente, ma che la travalica. Nei paesi anglosassoni, nei quali essa è osservata con attenzione maniacale, si considera scorretto il passare o il chiedere i compiti a un compagno di scuola: palpabile dimostrazione di come sin dalla più tenera età occorrere rispettare i valori di riferimento della vita. 
Pochi giorni fa, su radio Rai 1 qualcuno condannava uno studente che, infrangendo gli usi consolidati, s’era rifiutato di dare il suo compito di matematica a un compagno di scuola. Proprio il contrario di ciò che nel mondo viene considerato doveroso.
Sono partito lungo – direi così se fossi un ciclista - per giungere al cuore del discorso, avviato ieri in modo esemplare su questo giornale da Vittorio Testa. Qual è dunque la ricetta per contenere e ridurre nei limiti fisiologici una patologia endemica come la corruzione? Hanno un senso i continui aggravamenti della legge penale, l’equiparazione ai reati di mafia, le scelte persecutorie di una legge come la recente «Spazzacorrotti»?
La risposta la troviamo nelle statistiche del ministero della giustizia: i processi per corruzione sono pochi e le condanne ancora meno. 

Questo significa che, ancora una volta, il punto critico si trova nei palazzi di giustizia, nelle modalità di imbastire istruttorie e processi, nell’illusione del valore definitivo delle intercettazioni, in un apparato che, come sappiamo tutti, in Italia è fortemente condizionato dall’inefficienza. Per carità, diffusi problemi organizzativi e procedurali affliggono la nostra magistratura, nella quale alcune migliaia di cirenei si trovano nella necessità di sopperire a tutte le magagne (personale, strumentazioni) di cui sappiamo poco e male. 
Ma è l’aleatoria perseguibilità del reato di corruzione, quindi, che dà ai protagonisti del patto scellerato un’elevata probabilità di non essere scoperti e, se scoperti, di farla franca.
Sul fronte penale, in realtà, manca una reale contrapposizione di interessi tra corruttore e corrotto, cui non pone rimedio l’introduzione dell’«agente provocatore», innovazione pericolosa per la stabilità dello Stato democratico e per le istituzioni. 
Cerchiamo ora di venire al nodo cruciale: «Se in un procedimento si verifica un atto corruttivo è segno che il medesimo atto corruttivo era possibile». Non si tratta d’una affermazione alla Jacques de La Palice: se c’è stata corruzione è evidente che c’era un passaggio procedurale opzionale, nel quale il pubblico ufficiale poteva dire sì o no (elemento oggettivo). E poi ci doveva essere un funzionario disposto a orientare la propria decisione in relazione a un utile improprio (elemento soggettivo). 
Poiché la carne è debole e non sempre chi viene tentato è capace di resistere, dovremmo operare sull’elemento oggettivo: la procedura. Ovunque ci siano possibilità opzionali, là c’è quel potere pericolosissimo che si chiama «discrezionalità». Riducendone l’area si riduce la possibilità di attività corruttive. 
Per questa semplice ragione, l’Autorità anticorruzione, nata nell’ottica penalistica, non è stata risolutiva.
Certo, l’intervenire sulla discrezionalità è difficile. Soprattutto perché essa viene coniugata (anche nel nuovo codice degli appalti) con la «qualità», vera trappola terminologica, giacché ognuno di noi ha una sua precisa e diversa concezione di essa.
Insomma, la corruzione (con, a monte, la correttezza) è un obiettivo da perseguire (nel senso di perseguitare) con perseveranza e decisione, conoscendo tutte le insidie contenute nel procedimento amministrativo. 
Ne riparleremo, naturalmente. Con un suggerimento: cercatevi sul web i dati dell'Unione europea sulla corruzione negli stati membri. Non ne sarete sconfortati.


 DOMENICO CACOPARDO
www.cacopardo.it