Corruzione, quell'antico e triste vizio italico
Chi dice 60 miliardi di euro l’anno e chi ancor di più: quel che è certo è che il conto delle mazzette, dalla politica agli appalti e all’amministrazione pubblica, è enorme. Senza contare poi il danno per il mancato introito dello Stato che con cifre di quelle dimensioni potrebbe risolvere parecchi problemi. Il paradosso è che mentre le rilevazioni statistiche a livello europeo dicono che il fenomeno sarebbe in via di lenta regressione, l’Italia resta ai vertici nella classifica del malaffare: ormai a cadenza quasi quotidiana i media raccontano di arresti, perquisizioni, politici corrotti, foto di abboccamenti e passaggio rapido di buste rigonfie di banconote, collusioni di politici con clan mafiosi, sistemi di consorteria prezzolata per l’aggiudicazione di appalti e incarichi. Niente di nuovo, dunque, sul fronte dell’onestà, categoria virtuosa da tutti quanti ritenuta fondamentale in politica, con puntuali scambi di accuse tra un partito e l’altro, addirittura dediti a scandirne il nome in coro in Parlamento, a significare la propria rettitudine e l’altrui vizio. Il che già di per sé dovrebbe far accapponare la pelle: perché significa che l’onestà è ormai ritenuta merce rara, quando dovrebbe essere consustanziale all’attività di chi gestisce la cosa pubblica. Ma evidentemente non è così, se praticarla è azione così adamantina da esibirla come distintivo fiore all’occhiello.
Il problema, antico quanto il mondo e diffuso in ogni dove, ha una valenza tutta nostrana. Nel senso che ad ogni esplosione di scandali scoperti da Nord a Sud segue un breve periodo di automatica e incredula indignazione, un rito da celebrare nei talk show, presto però stemperato e poi sostanzialmente eluso nella pratica quotidiana degli affari, quelli pubblici sopra tutti. Siamo ormai assuefatti, riteniamo che la corruzione sia diffusa e ineliminabile. In effetti è un male antico, il nostro: è tossico e crea dipendenza: inquina politica e affari accompagnando il cammino dell’Italia moderna fin dalla nascita della nazione, fin dall’unità. Nell’Italia liberale delle origini e via via da Depretis a Crispi a Giolitti emersero casi clamorosi, come quello della Banca Romana che arrivò a lambire il re e la regina. Scoppiarono, anzi crepitarono e si spensero in fretta, presto metabolizzati da una società che la riteneva fatalisticamente ineliminabile: Benedetto Croce scriveva che «la corruzione si addensa ma non scoppia affatto», nel senso che, ritenuta «normale» elemento insito nei rapporti , era considerata strumento legittimo per avere favori, raccomandazioni, posti, privilegi e assunzioni di figli, nipoti, amanti e amici. Così fu poi sempre, durante la Grande Guerra, il Ventennio, la ricostruzione e la rinascita dopo la Seconda guerra, il boom economico, le riforme del decentramento amministrativo dallo Stato alle Regioni, alle Province ai Comuni. Moltiplicando i passaggi obbligati per avere licenze, appalti e incarichi - e voti elettorali- si moltiplicarono le occasioni corruttive. I cosiddetti ‘«scandali» - quello dei tabacchi, dei petrolieri, della Lockheed, della ricostruzione dei vari terremoti -, si susseguirono senza che la politica e i partiti riuscissero o volessero dotarsi di regole di trasparenza. Per venire più vicini a noi, nemmeno l’inchiesta giudiziaria sul malaffare politico-imprenditoriale , forse la più vasta del mondo occidentale, l’inchiesta Mani Pulite, riuscì a provocare un vero cambiamento, se non la falcidie dei partiti di centrosinistra, unico soltanto sfiorato (ma forse mai passato al setaccio) fu l’allora il Pci del tenacemente trincerato nel quadrisillabico - «Non- ri-cor-do» - compagno Greganti. Quando il leader socialista, Bettino Craxi, sfidò in Parlamento gli onorevoli colleghi a sostenere pubblicamente di non sapere che i partiti si finanziassero con metodo irregolare e illegale mediante bilanci falsi, fecero tutti quanti orecchie da mercante. Niente è cambiato. Né con la Seconda repubblica, né con i furori leghisti subito spenti dall’aver il suo amministratore Patelli ricevuto 200milioni; né con la gestione Berlusconi; né con Dini, D’Alema, Prodi, Letta, Renzi, Gentiloni, Monti. Né, così pare e così è adesso, con i gruppi parlamentari che a turno intonano il coro «onestà onestà», senza però mettere in campo strumenti di efficaci controlli e leggi mirate a combattere davvero la corruzione. Ha sempre fatto vita grama l’onestà, fin dai tempi di Giovenale: «Probitas laudatur et alget». E’ la virtù che, elogiata a parole ,muore di freddo.