Il caso Siri e le prospettive del governo gialloverde

DOMENICO CACOPARDO 
Alla fine, dopo alcune settimane di brontolii di cielo, si sono sciolte le cateratte ed è iniziato a piovere. Intendiamoci, non un’alluvione, ma gelidi goccioloni sul capo di Matteo Salvini, costituiti cioè dall’improvvisa accelerazione imposta da Giuseppe Conte a quella che sembrava un’ennesima melina in attesa delle elezioni europee. 
Ci riferiamo alle dichiarazioni che il premier ha rilasciato giovedì sera a proposito di Armando Siri, sottosegretario leghista accusato dalla procura di Palermo di avere ricevuto una tangente per inserire (tentativo fallito) un emendamento pro-eolico. 
E dire che, dopo le elezioni in Sicilia – nelle quali i 5Stelle non erano andati bene, ma non così male come nelle altre consultazioni di primavera e i leghisti non avevano superato l’asticella del 10% - s’era diffusa la sensazione che i partiti di governo, timorosi delle urne, intendessero accantonare i dissensi, puntando sulla prosecuzione della legislatura. 
In realtà, la tessitura della trappola è continuata sin al momento giudicato utile da Giuseppe Conte. Mentre Di Maio disseminava di ostacoli la strada di Salvini (no provincie; no flat-tax; no sovranisti alla Orban), il premier incontrava, a palazzo Chigi, Siri. Non è stato reso noto il contenuto del colloquio, salvo il fatto che l’accusato avrebbe promesso dimissioni dopo l’interrogatorio di garanzia al quale sarà sottoposto entro una quindicina di giorni.

Quasi subito Conte ha preso, però, la ribalta per annunciare che, senza immediate dimissioni, avrebbe portato in consiglio dei ministri l’allontanamento del sottosegretario. Sul merito, Salvini aveva dichiarato (prima del penultimatum presidenziale) «Mi deve spiegare». Il che farebbe dedurre un atteggiamento dialettico del capo leghista il quale, non insistendo sulla precedente posizione («Siri non si muove»), avrebbe aperto un varco alla rimozione (per spingere il suo uomo alle dimissioni?). Interpretazione confermata dall’interessato che, senza giri di parole, ha accusato il colpo: «Mi hanno abbandonato».
Questo lo stato dell’arte. Unico retroscena immaginabile: nel viaggio a Tunisi della troika presidenziale (in ordine alfabetico: Conte, Di Maio, Salvini) il leader della Lega avrebbe in modo esplicito o implicito subito la posizione degli altri due. La questione, hic et nunc, non è (come a regola dovrebbe essere) etica o amministrativa. È soltanto politica. Comunque la si rigiri, la Lega, se Siri sarà costretto alle dimissioni o rimosso d’ufficio, subirà un grave scacco. Il Salvini rampante dell’ultimo anno potrebbe risultare ferito nella credibilità conquistata. Di Maio avrebbe vinto, certo, ma difficilmente incasserà qualcuno dei crediti che crede di avere ottenuto. Per ora «l’ordine - non -  regna a Varsavia» (Roma). Nessuno dei partner di governo, però, deve poter vantare una vittoria sull’altro: qualcuno potrebbe pensare che è meglio perdere in due che da soli. Conseguenze? Emergeranno quando Siri avrà varcato, uscendone, il portone del ministero. A meno che, nel finale, la fervida fantasia legale del premier non riesca a immaginare una soluzione che salvi la faccia a tutti. Meno che a Siri, naturalmente.

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