Quel bimbo morto alle frontiere dell'Europa
In «Camminacammina» – uno dei film minori di Ermanno Olmi, imperfetto ma forse proprio per questo così affascinante – viene ricostruito – in modo volutamente raffazzonato e usando attori non professionisti – il cammino dei Re Magi alla ricerca del Figlio di Dio annunciato dalla cometa. Solo che nella versione di Olmi i Re Magi, molto poco regali nei loro stracci, trovano sì un bimbo appena nato, che forse non è neppure l’Eletto, ma per paura dell’Imperatore si disperdono senza annunziare la lieta novella. Ma, nonostante i loro tentativi di rimanere sottotraccia, il massacro di Erode arriva comunque. E senza fuga in Egitto. Un film che potrebbe essere visto come assolutamente nichilistico, ma che, come spesso avviene con Olmi, vuole significare tutt’altro, cioè la speranza che ogni nascita – anche la più insignificante e umile – sia in qualche modo la nascita stessa del figlio di Dio che per i credenti – e Olmi lo era – si è fatto carne per salvare tutti. E contro questo miracolo di tutti i giorni nulla può il potere del mondo. Un ribaltamento che vede speranza anche nell’annientamento di ogni speranza: «spes contra spem», speranza contro ogni speranza, secondo il detto di San Paolo nella Lettera ai Romani.
Forse perché andiamo verso il Natale è proprio a questo film e al suo messaggio contraddittorio, ma aperto al futuro, che ho pensato quando l’altro ieri è arrivata la notizia, atroce e scandalosa, della morte per gli stenti e per il freddo del bimbo siriano di un anno in un bosco alla frontiera tra la Bielorussia e la Polonia. Una specie d'inospitale terra di nessuno in cui qualche migliaio di persone è intrappolato. Migranti che fuggono da guerre e dittature o solo povera gente che cerca un futuro migliore in una società più ricca – e meno ingiusta – rispetto a quella da cui proviene.
Ora cerchiamo di capire perché questo avviene e perché il problema che pongono le migrazioni non è risolvibile con la semplice costruzione di muri ed esibizione di forza bruta. La crisi tra la Bielorussia e la Polonia è stata causata – come giustamente ha notato Mario Draghi – dal fatto che «i migranti sono diventato uno strumento, diciamo gentilmente, di politica estera». Sono stati attirati, con il miraggio di un facile passaggio in Europa, in Bielorussia, – territorio molto distante dalle abituali rotte delle migrazioni – per un cinico calcolo delle autorità di Minsk e del dittatore Alexander Lukashenko. I bielorussi li stanno usando come strumento di pressione – ambienti Nato parlano più apertamente di «guerra ibrida» – contro i paesi vicini che fanno parte dell’Unione europea. Quindi non solo la Polonia, ma anche le Repubbliche baltiche. Per quel che riguarda la Polonia la crisi è resa ancora più esplosiva dal fatto che a Varsavia è al potere un partito nazionalista ossessionato dalla purezza etnica dei polacchi. È un concetto che fa abbastanza ridere, lo so, considerando la ricchezza multiculturale della Polonia in tutta la sua storia, venuta, in parte, meno solo a causa dell’olocausto nazista. Ma tant’è. Uno Stato che si sente investito dalla missione morale, un destino, di difendere la radici cristiane d’Europa costruendo muri e negandosi alle leggi dell’accoglienza che pure fanno parte delle suddette radici cristiane. Il tutto è reso ancora più complicato dal fatto che Lukashenko, il dittatore Lukashenko che imprigiona gli oppositori politici e vince le elezioni anche quando le perde, non è riconosciuto dall’Unione europea che, giustamente, si rifiuta d'intavolare negoziati diretti e che, quindi, è costretta a chiedere la mediazione di Mosca.
Putin – alleato di Minsk – rimanda la palla in tribuna dicendo che è ora che le due parti si parlino direttamente, mentre la situazione sul confine non si sblocca. Per l’ennesima volta tocca ad Angela Merkel – il nostro Mister Wolf, se mi lasciate passare l’ennesima citazione cinefila – cercare di sbrogliare la matassa intricata parlando, in modo informale, con Lukashenko. È possibile che anche questa volta la Cancelliera – che è in scadenza – riesca a fare l’ennesimo miracolo e a fare in modo che i 3.000 disperati che attendono al freddo e al gelo alla frontiera alla fine trovino riparo, ma il problema rimane.
La politica migratoria dell’Unione, infatti, è totalmente sbagliata e preda di politiche simboliche che non risolvono i problemi, ma anzi li aggravano. Per far capire di cosa stiamo parlando non possiamo non far notare che il numero di migranti che preme alla frontiera orientale dell’Europa è pari a quello che più o meno ogni settimana sbarca in Italia e Spagna, Paesi che si fanno carico di un enorme peso di solidarietà senza che qualcosa si smuova negli altri membri dell’Unione. Se si continua a rimandare la messa a punto di una politica razionale e minimamente umana verso le migrazioni che, tenuto conto dell’enorme divario di benessere che c’è tra il Nord e il Sud del mondo, non possono essere bloccate costruendo muri o blocchi navali sul Mediterraneo, le morti – anche quelle più atroci, quelle dei bambini migranti – continueranno. E allora resta solo la speranza contro ogni speranza nell’umile lavoro degli uomini di buona volontà. O semplicemente di chi si sente toccato personalmente dalla morte di un bimbo che avrebbe avuto una vita davanti.