EDITORIALE

Il bilancio della sfida. Fallimento dei partiti

Domenico Cacopardo

Leggo sui giornali di domenica a proposito delle modalità di elezione di Sergio Mattarella per un secondo mandato di presidente della Repubblica la ricorrente affermazione del fallimento della politica e, addirittura, per alcuni, della democrazia.

Secondo me, ciò che è accaduto è tutto il contrario di un fallimento della politica e/o della democrazia.
Gli istituti democratici e, in questi giorni primo fra essi il Parlamento, hanno superato la prova dimostrando la validità di un sistema che, secondo Winston Churchill “… è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle altre forme che sono state sperimentate sino a ora” (discorso alla Camera dei comuni del novembre 1947). Infatti, dopo al 6° giorno di votazioni, la pressione dei parlamentari («senatores boni viri, senatus mala bestia») ha sfondato gli arzigogoli inconsistenti dei cosiddetti leader dei partiti, imponendo il ritorno al nome di Sergio Mattarella, onorato poi da una valanga di voti.
Ciò che non ha funzionato, infatti, sono i partiti attuali (forma decaduta e anchilosata dei partiti intorno ai quali nacque la Repubblica) e le loro dirigenze, mai come oggi lontani mille miglia dalle ragioni della politica, dalle esigenze dei cittadini, dalle necessità dell’economia e della società.
Un fallimento che coinvolge tutti o quasi, giacché Giorgia Meloni, avendo deciso di proporre il suo partito, Fratelli d’Italia, come alternativa di sistema (o nel sistema) ha giocato le sue carte sapendo che nella migliore delle ipotesi avrebbe raggiunto il proprio fine, nella peggiore avrebbe partecipato a una elezione di rottura degli equilibri su cui solidamente, ma non quanto sarebbe necessario, poggia il Paese. E ad eccezione di Matteo Renzi, pura intelligenza politica, macchiata da frequenti eccessi di egotismo, che ha navigato di bolina, sapendo sempre quale fosse la posizione giusta per il piccolo timone che teneva e tiene saldamente in mano.
Gli altri, da Salvini a Letta riscuotono una votazione insufficiente. E preoccupante. Sia la Lega non più Nord (e sottolineo il fatto) che il Pd sono due partiti che affondano le proprie radici nella prima Repubblica. Essi costituiscono parte del patrimonio storico nazionale e parte non marginale del sistema democratico che intendiamo preservare e, magari, rilanciare.
Per la Lega, le questioni sono due: una direzione di marcia spesso contradditoria, in bilico tra il diventare la forza tranquilla come in Germania la potente e decisiva Unione cristiano sociale bavarese e quindi capace di assorbire i resti del “centro” del “centro-destra”, o essere forza di contestazione del sistema in concorrenza con Fratelli d’Italia. Una concorrenza che spinge verso l’estremizzazione dei processi politici.
L’altra è costituita dalla rincorsa di sirene improbabili e dannose, quelle del sovranismo nazionalista, e dall’abbandono della sostanziosa costituency costituita dal tessuto delle piccole medie e grandi imprese del Nord. Esse (in affannosa ricerca di manodopera anche extracomunitaria) hanno l’interesse a essere parte di un sistema allargato come l’Europa col quale si sono misurate con successo e con prospettive di ulteriori affermazioni. È bastato l’instaurarsi di un governo stimabile e stimato per creare la fiducia necessaria a realizzare la più rapida ripresa economica mai accaduta, superiore alla Germania. Una ripresa che non è un miracolo di governo, ma un miracolo imprenditoriale, degli italiani che sanno e vogliono lavorare meglio degli altri. Degli italiani che si misurano con il mercato, rifiutando con sdegno la fannullanza garantita da un assegno dello Stato.
Del resto, il successo italiano in Europa, nelle istituzioni europee che ci ha permesso di fruire (in itinere) del più ingente finanziamento mai ottenuto dall’Italia si fonda sulla forza del Paese, prima che sulla credibilità del suo premier.
Penso che sia nell’interesse dell’Italia e degli italiani che la Lega divenga un protagonista positivo dell’agone politico nazionale, portatore delle esigenze del mondo dell’impresa (se ci riflettiamo l’imprenditorialità diffusa italiana è un fatto di per sé democratico) e di quel buon governo che in genere nelle regioni e nei comuni è merito delle amministrazioni leghiste (non tutte, ma tante, tantissime).
E un pilastro, un po’ eroso dai venti acidi cui è stato sottoposto, è il proprio il Pd. Il partito democratico, nato a Torino il 14 ottobre 2007, avrebbe dovuto essere il partito del riformismo progressista, detto in una parola del riformismo socialista che s’era affacciato in Italia ed era stato ricacciato indietro da una serie di immaginabili reazioni retrive. Un partito parente del partito democratico americano, nel quale coesistono le diverse anime dell’area liberal di quel paese. Tanto che dopo un inizio stentato con il capo rivolto al passato più che al futuro, un giovane leader, Matteo Renzi, ne aveva conquistato il comando e l’aveva condotto sulla via del riformismo anche costituzionale. I ceti conservatori (che costituiscono un solido potere nel partito, con le reti economiche e sociali che ne sono emanazione) hanno chiuso l’esperienza, riprendendo in mano le sue redini. È questo che manca al Paese: una forza di riformismo democratico che guardi al futuro e interpreti le esigenze delle giovani generazioni.
Degli altri, i residuali con potenzialità latenti, avremo modo di scrivere presto.
E c’è un segno significativo in questo sabato 29 gennaio: in contemporanea con l’elezione di Sergio Mattarella alla presidenza della Repubblica, è stato eletto il presidente della Corte costituzionale, nella persona di Giuliano Amato. Un socialista, un riformista che la legge del contrappasso pone alla testa del sistema giudiziario di garanzia nel momento più opportuno, quello in cui la Repubblica può riprendere il suo cammino di crescita civile, economica, morale.
Ai due presidenti, accomunati dal giorno di elezione e da una storia politica di democrazia attiva, vanno formulati i più caldi auguri di successo.
Per l’Italia. Per noi tutti.
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