EDITORIALE

L'umanità intera sotto attacco

Pino Agnetti

Altro che «No war, no Nato», come mi è capitato di dover leggere su uno striscione circolato nei giorni scorsi per le vie di Parma. Qui l’unico slogan da gridare con quanto fiato si ha in corpo è «No war, no Putin!». Le immagini spaventose delle gigantesche esplosioni nella capitale Kiev e in altre città con cui è iniziata l’invasione su vasta scala dell’Ucraina, sottoposta a un attacco concentrico di terra, di cielo e di mare lanciato da Sud, da Est e da Nord, parlano già da sole. Così come le cifre  delle prime vittime che si contano già a centinaia. Nel suo allucinante discorso notturno, Putin l’ha definita una «operazione militare speciale». Ma di speciale in questa tragedia dalle conseguenze inimmaginabili c’è solo la ferrea premeditazione con cui il dittatore russo ha attuato ciò che aveva deciso di fare da tempo. Già vederlo sere fa seduto di sbieco dietro la scrivania mentre con aria a metà fra lo sprezzante e l’annoiato impartiva la “sua” lezione al mondo intero, metteva i brividi. Da sempre i dittatori, al pari dei boss, comunicano allo stesso modo. Dando l’idea di stare raccontando qualcosa di talmente ovvio e banale da non ammettere dubbi o repliche di sorta.

«L’Ucraina è nostra, dell’impero russo!», aveva sibilato l’ex alto funzionario del Kgb dei tempi in cui il Muro di Berlino era ancora in piedi e «la più grande catastrofe geopolitica del XX secolo» (cioè il crollo dell’Urss sempre a suo dire) non si era ancora compiuta. Scrutando quel volto reso ancora più di ghiaccio dalle robuste iniezioni di botulino, i brividi avevano ben presto ceduto il passo ai ricordi e mi ero trovato scaraventato di nuovo in mezzo alla Georgia dell’estate 2008. Fra decine di villaggi bruciati e rasi al suolo e fiumi di civili in fuga dalle armate spedite da zar Vladimir a “proteggere” le autoproclamate repubbliche filorusse dell’Ossezia e dell’Abkhazia. Difficile dimenticare quella anziana contadina che mi fissava muta stringendo fra le mani come una reliquia la chiave della sua casa perduta per sempre. O gli occhi vuoti del bambino destinato a diventare il simbolo della campagna «Georgia chiama Parma» che avrei lanciato al mio ritorno in Italia. Parimenti indelebile il ricordo della odissea interminabile vissuta con il direttore della Caritas georgiana, padre Witold, per raggiungere Gori, la città natale di Stalin. Con il baule del fuoristrada pieno di ceste di pane per gli abitanti che non toccavano cibo da giorni e la decina di posti di blocco russi superati (bontà loro) solo grazie a quello speciale “lasciapassare”. Fino all’arrivo nella piazza centrale di Gori sotto l’enorme statua di Josif Vissarionovič Džugašvili: l’unico a osservare soddisfatto il carosello dei blindati dell’Armata rossa stracarichi di soldati trionfanti per la vittoria lampo sulle lillipuziane difese georgiane spazzate via in una manciata di giorni.


Ora, però, lo schema da gangster utilizzato 14 anni fa in Georgia dal dittatore russo e replicato con la carta carbone in Ucraina (basta mettere al posto dell’Ossezia e dell’Abkhazia le due altrettanto sedicenti “repubbliche” di Donetsk e Lungansk lungamente foraggiate e armate come le precedenti sempre da Mosca) si è trasformato nella invasione del secondo Paese più vasto d’Europa! E la storia - quella dura, sporca e cattiva delle bombe e dei civili inermi usati come pedine, non quella asettica e nebulosa degli analisti che hanno prontamente preso il posto dei virologi - si è ripetuta ma stavolta con proporzioni enormemente più grandi. Mettendo così l’Occidente - inutile nascondercelo - con le spalle drammaticamente al muro. Nessuno, infatti, da Washington a Bruxelles, da Parigi a Berlino passando per Roma, Madrid e Londra, è o sarà disposto a “morire per Kiev”. Quanto alle sanzioni, sarebbe bastato ascoltare le parole recenti dell’ambasciatore russo in Svezia - «Non ce ne frega niente delle sanzioni!» - per capire che in questa dannata partita la clava - cioè il gas e non solo quello - ce l’ha avuta fin dall’inizio lo zar. Per non parlare della malcelata simpatia di consistenti settori della politica e della opinione pubblica occidentali per il Putin dittatore finché si vuole. Ma per ciò stesso capace di farsi rispettare e, quindi, perfino degno di essere ammirato (appena 48 ore fa Trump lo ha definito addirittura un genio). A riprova che il fascino sinistro storicamente esercitato da personaggi del genere non muore mai. Neppure a spiegare e a rispiegare mille volte che cosa accadde all’Europa dopo che il primo ministro britannico Neville Chamberlain si fece abbindolare da Hitler nel 1938 a Monaco.


Nonostante quel tanto rovinoso precedente, di fatto è passato il concetto che fosse meglio non tirare troppo la corda con lo zar. Mentre la catastrofe appena iniziata ci dice che si è trattato solo dell’eterno auto inganno di chi continua a vivere in un mondo - quello del dopo Guerra Fredda baciato dal sogno di un futuro senza limiti di pace, democrazia e progresso - che non esiste più. Sostituito da un mondo in cui, a guidare le danze, sono i moderni regimi autoritari armati fino ai denti che hanno deciso di spartirselo.


Come per altro hanno già iniziato a fare scientificamente: Putin con l’Europa orientale, il Medio Oriente e il Nord Africa e addirittura il Mediterraneo solcato ormai in permanenza dalle più moderne navi da battaglia russe; il dragone cinese con il resto dell’Asia e dell’Africa e perfino con l’America latina, in attesa (al massimo pochi anni) di piantare gli artigli nella schiena di Taiwan.
A maggior ragione, fanno semplicemente pena i commenti di quanti anche di fronte allo spettacolo tremendo dell’Ucraina in fiamme insistono nel dipingere una Cina contraria alla invasione russa. Pechino non ha condannato un bel nulla, solo invitato tutte le parti in causa a «mantenere la calma»: difficile mantenerla per il disgraziato popolo ucraino sottoposto a una pioggia ininterrotta di missili e con 200.000 soldati dell’Armata rossa piazzati sotto casa con l’ordine di restarvi finché non avranno finito di «denazificare» l’intero Paese.


Nel suo sfrenato sfoggio di onnipotenza, Putin ha pure minacciato di colpire «chiunque tenterà di interferire nelle operazioni». Una minaccia diretta all’America, all’Europa e alla Nato. Cioè, a tutti noi. Come nel film della saga di Guerre stellari, dunque, l’impero ha colpito ancora. E ormai dovrebbe essere chiaro pure ai sordi e ai ciechi che potrebbe farlo di nuovo: domani con gli Stati baltici confinanti anch’essi con la Russia e già membri della Nato, oppure incendiando come già ventilato i Balcani.
L’umanità intera e non solo l’Ucraina sono sotto attacco. Lo ha detto l’Onu, lo hanno detto l’Europa e la Nato, a suo modo lo ha detto pure il Papa con la sua preghiera inascoltata di preservare il mondo dalla follia della guerra. Nell’ora più buia dalla fine del secondo conflitto mondiale, non resta che prepararsi (se va bene) a un altro Afghanistan combattuto stavolta nel cuore d’Europa dato che l’unica chance rimasta agli ucraini è di ripiegare su una resistenza lunga e sanguinosa. Il danno per certi versi minore, se paragonato al rischio immanente di una Terza guerra mondiale e di un olocausto nucleare. A questo ci ha portati quel “genio” di Putin. Un genio sì. Ma del male.