Editoriale

Solamente Papa Francesco può porre fine all’orrore

Pino Agnetti

Ormai, dovrebbe essere chiaro a tutti che questa guerra spaventosa nel cuore dell’Europa non si fermerà. Potrebbe fermarsi se gli ucraini si arrendessero, ma questo grandioso popolo ha già fatto vedere al mondo intero che non lo farà mai. Potrebbe fermarsi se l’invasore si ritirasse, ma l’impiego perfino ostentato di armi di distruzione di massa dimostra, ogni giorno che passa, che i russi sono pronti a ricorrere a qualsiasi mezzo. Compreso quello meno tecnologico, ma per certi versi ancora più devastante della pulizia etnica declinata in tutte le sue varianti più odiose e bestiali: dalla deportazione forzata dei civili al rapimento e alla presa in ostaggio di giornalisti e di sindaci, fino agli stupri attorno a cui le testimonianze sono ormai troppe per potere parlare di una invenzione propagandistica. D’altra parte, non è certo propaganda lo scempio della città martire di Mariupol ridotta a un terrificante cumulo di edifici smembrati e anneriti secondo lo stesso modello applicato da Putin e dai suoi alleati mediorientali alle siriane Aleppo e Homs. L’ultimatum di Mosca - arrendetevi e consegnateci la città - è caduto nel vuoto e certo non per cinica testardaggine da parte delle autorità ucraine ben consapevoli che, dopo Mariupol, sarà la volta di Odessa sul Mar Nero su cui la flotta russa sta intensificando i bombardamenti. E quindi della capitale Kiev, che era e resta l’obiettivo primario di Putin e dove una pioggia di bombe ha appena incenerito un grande centro commerciale ammazzando almeno otto persone.

Dopo un mese di guerra, la nuda e cruda verità è che da questo vortice senza fine di orrore e di terrore non si esce e non si sta uscendo. Putin in persona ce lo ha sbattuto in faccia infinite volte. L’ultima, durante la terribile adunata allo stadio di Mosca in cui, avvolto nel suo parka “Loro Piana” da 12 mila euro, ha perfino citato bestemmiando il Vangelo per giustificare la “storica” missione di rifare la Russia degli zar e lo stesso impero sovietico affidata alle sue armate contrassegnate dalla “Z” al posto della sigla “SS”. Pensare che una “controparte” simile possa accettare di sedersi a uno dei tavoli che continuano a spuntare come funghi (l’ultima a essersi offerta dopo Turchia e Israele è stata la Svizzera) è un esercizio su cui è senz’altro doveroso insistere. Ma destinato fatalmente a non produrre alcunché di serio e di concreto.

La guerra in Ucraina, dunque, continua e continuerà a divorare tutto: case, scuole, teatri, ospedali, ospizi (ben 56 gli anziani uccisi nel bombardamento di una casa di riposo a Kreminna nell’Ucraina orientale), magazzini di cibo e di medicinali, fabbriche, depositi di macchine agricole, centrali elettriche, per tacere del rischio immanente di un incidente catastrofico in quelle nucleari di cui è pieno il Paese. Una guerra resa ancora più barbara dalla cupa ferocia con cui gli occupanti, che ieri a Kherson hanno sparato sui manifestanti inermi, si stanno vendicando delle pesanti perdite subite nel corso della “operazione militare speciale” ordinata dal loro sanguinario zar. Al tempo stesso, lo tsunami senza precedenti di profughi con cui Putin ha già iniziato a bombardarci direttamente è destinato ad assumere dimensioni, anche economicamente, non più o troppo a lungo sopportabili. Prova ne è il drammatico appello alla Ue della Polonia, che con più di due milioni di profughi ucraini già ospitati, teme a ragione che il clima interno di solidarietà possa virare presto in protesta. Attenzione! Stiamo parlando dello stesso Paese sia Ue che Nato che ha già visto i razzi russi cadere a 20 chilometri dal proprio confine orientale e che si trova sotto il tiro diretto dei missili nucleari schierati nella enclave russa di Kaliningrad su quello settentrionale.

Fin qui, lo scenario da incubo in cui ci troviamo e su cui gli analisti si arrovellano in cerca di una possibile via d’uscita. Rappresentata, secondo alcuni, dalla cattura e dalla eliminazione del presidente ucraino Zelensky. Secondo altri, da un golpe interno russo che faccia fuori (letteralmente) Putin. Nel primo caso, l’Ucraina perderebbe un presidente che anche oggi - collegato in diretta con il Parlamento italiano - dimostrerà che i comici di professione possono diventare dei leader carismatici molto più e meglio di quanto accade nei film. Ma, anche qualora i killer che stanno dandogli la caccia riuscissero a compiere il loro sporco lavoro, le truppe russe non se ne andrebbero di certo (e perché mai dovrebbero farlo?) e la resistenza ucraina andrebbe avanti comunque, città per città e casa per casa. Quanto al golpe che potrebbe rovesciare Putin, avvelenandolo o grazie a un provvidenziale “incidente”, quel poco che filtra da Mosca indica come il boss del Cremlino abbia alzato ulteriormente il livello di protezione intorno a sé pure nei confronti del suo stesso “cerchio magico”.

Detto ciò, qualcosa va comunque tentato per rompere la cappa infernale che va allargandosi su tutta l’Europa e sotto cui stanno germogliando i semi malefici della Terza guerra mondiale. E l’unica persona in grado di compiere un tale passo è Papa Francesco. Solo lui ne ha l’autorità morale, universalmente riconosciuta anche da chi cristiano non è, oppure si è dimenticato di esserlo come il Patriarca ortodosso di Mosca Kirill rivelatosi nient’altro che un docile burattino nelle mani di Putin. Solo Francesco può andare a piantare la bandiera dell’umanità se non nella capitale Kiev, a Leopoli che dell’Ucraina è l’anima e il faro spirituale. Un quarto di secolo fa, nello stadio di Sarajevo circondato da decine di migliaia di croci, un altro Papa, Giovanni Paolo II, alzò la sua voce ancora possente nonostante la malattia per dire in tutte le lingue “Pace!”. Mentre lo ascoltavo inginocchiato nel fango insieme a una moltitudine di scampati a un altro terrificante massacro, il cielo nascosto fino a quel momento da una tormenta di neve si squarciò di colpo e il sole inondò di luce la città martire della Bosnia. Venticinque anni dopo Sarajevo, oggi è più che mai il tempo di un Papa che, ergendosi nel cuore stesso della tempesta, gridi in nome e per conto di tutti noi: “Basta con la guerra!”.