EDITORIALE

I barbari fra di noi

Pino Agnetti

La sensazione, terribile, è che qualcosa ci sia sfuggito irrimediabilmente di mano. Che non ci sia più limite al degrado prima ancora delle menti, che delle strade sempre più brutte e insicure di questa nostra meravigliosa città. Siamo da tempo - troppo - in una emergenza culturale, educativa e di costume (verrebbe da aggiungere di civiltà!) che nessuna analisi o denuncia riescono ormai a circoscrivere in un qualsivoglia perimetro logico e razionale.

Tale da consentire, se non altro, di ipotizzare cure e rimedi immediatamente applicabili, se non almeno parzialmente risolutivi.
Che ne è della Parma bella, gioiosa, tranquilla (che non significa addormentata) e irresistibilmente accogliente non dico dei nostri genitori e nonni, ma della nostra più o meno recente età matura? Giunti a questo punto, è del tutto inutile accusare questo o quell’altro, questa o quell’altra parte. E non lo dico perché, trovandoci in campagna elettorale, sia sconsigliabile sbilanciarsi. Lo dico perché, senza un vero esame di coscienza collettivo, anche lo scempio di piazza Duomo - uno dei gioielli assoluti dell’Umanità - rischia di finire derubricato al livello di un fastidioso, ma tutto sommato «normale», imbrattamento di qualche muro o facciata sotto casa.

Dovevamo invece capire e da un pezzo che, a forza di mercificare a suon di movide e di apericene ogni centimetro quadrato del centro storico, a forza di trasformare spazi e monumenti millenari in anfiteatri rutilanti di decibel e di salsicciotti grigliati, a forza di organizzare feste da strapaese spacciate da «eventi» con la scusa (buona a destra come a sinistra) di «fare divertire la gente», avremmo svuotato di ogni residua parvenza di sacralità e quindi di inviolabilità i nostri tesori più preziosi e universalmente ammirati. Per consegnarli alla fine, e come è sotto gli occhi di tutti, nelle mani dei barbari. I quali, prendendo a secchiate d’olio i portali (non uno si badi bene, ma tutti e sei!) della Cattedrale e del Battistero e già che c’erano pure quelli di San Giovanni, dell’antica e omonima Farmacia nonché del Seminario Maggiore, ci hanno gentilmente ricordato che sono più che mai fra di noi. E se ne infischiano delle nostre, per altro assai flebili, reprimende. Delle nostre indignatissime condanne «spot» con cinque righe su Facebook e poi via, a inaugurare una nuova performance graffitara o a inginocchiarsi plaudenti di fronte all’ultima versione del «Verdi con le tette».

Sarebbe stato bello se i vari contendenti per il prossimo trono municipale si fossero dati immediato appuntamento in quella nostra sublime «piazza dei Miracoli», per poi sottoscrivere un corale e solenne impegno a difendere e a proteggere Parma fino all’ultimo respiro. Anche al prezzo di dovere andare in giro la notte a vegliare e a controllare di persona, invece di delegare la faccenda unicamente agli addetti ai lavori. Cosa che, sia detto per inciso, non richiederebbe affatto di indossare i panni del «sindaco sceriffo», quanto semmai quelli del «buon padre di famiglia» e basta.

Ieri invece, mentre mi aggiravo mestamente fra i luoghi del misfatto, mi è capitato di incontrare solo il custode e la giovane restauratrice che, armata di spugna e di solventi, cercava di cancellare le macchie bisunte spuntate sull’ingresso principale del Duomo intagliato da Luchino Bianchino nel 1494. Osservando quelle impresse sul portale del Battistero che affaccia a Ovest, detto del Redentore, in un lampo mi è sembrato di rivedere la «Z» che da settimane aleggia malefica nel cuore stesso dell’Europa dove le bombe e i missili hanno distrutto e stanno distruggendo non solo vite umane, ma anche centinaia di chiese, statue e monumenti simboleggianti il trionfo della luce sul buio. E mi sono detto che la cosa peggiore che forse sta accadendo in questa nostra città benedetta come poche altre in Italia e in Europa dagli dei della bellezza e del genio, così come dalla formidabile ricchezza regalataci dalla generazione dei «ricostruttori» miracolosamente sgorgata dalle macerie della guerra, è questo nostro lento e rassegnato arrendersi alle tenebre che avanzano. Percepite come un orizzonte magari da deprecare, ma con cui è inevitabile convivere e a cui bisogna giocoforza adeguarsi. Un po’ come per la pandemia. Ma è così che il declino assume, con buona pace dei «Suvvia, mica siamo a Napoli o a Palermo!», la velocità della valanga. È così che il giusto orgoglio di una grande storia - la nostra! - vira ineluttabilmente nel più stanco e noioso degli esercizi retorici. È così che anche la tanto declamata voglia di «fare squadra» comincia a emettere lo stridio caratteristico dei dischi rotti.

Servirebbe un soprassalto se non altro di dignità, unito alla presa d’atto delle sfide senza precedenti che il mondo intero sta affrontando e che richiedono, a tutti i livelli, risposte altrettanto eccezionali e ferme. Ma, per restare alla nostra Parma, servirebbe più semplicemente farsi due passi in piazza Duomo. E, una volta là, sostare in silenzio per qualche secondo guardandosi attorno con lo stesso spirito grato e umile del turista che contempla per la prima volta tutta quella magnificenza. Basterebbe forse questo per ricordarci della straordinaria fortuna che ci è stata consegnata. E che, una volta persa o abbandonata nelle mani dei barbari, niente e nessuno ci ridarà più.