Editoriale

Perché Macron non ha già vinto il ballottaggio

Paolo Ferrandi

Se fosse per i bookmaker la sfida tra Emmanuel Macron e Marion Le Pen, i due candidati che si giocheranno 5 anni all’Eliseo al ballottaggio del 24 aprile, sarebbe già chiusa: ieri la conferma di Macron valeva 1,15, mentre Le Pen era data a 4,50. Gli allibratori danno queste quote tenendo presente il distacco di oltre 4 punti tra Macron (27,85%) e Le Pen (23,15%) al primo turno e i primi sondaggi che danno tutti vincente l’attuale presidente. Alcuni con un distacco significativo, altri con una differenza molto più tenue. Macron, tra l’altro, domenica ha avuto una performance migliore di quella pronosticata dagli ultimi sondaggi che lo davano quasi appaiato alla candidata del Rassemblement National e anche questo è valutato dai bookmaker.

Tutto già deciso quindi? Non proprio. E gli stessi candidati, in qualche modo, lo confermano con i loro comportamenti. Macron è subito partito di gran carriera con una campagna elettorale che finora aveva praticamente snobbato. Ieri era a Denain, una delle città più povere di Francia, nel nord del Paese. Una vera e proprio spedizione in terra lepenista. Nel 2017, per fare un paragone, Macron festeggiò il risultato del primo turno a La Rotonde, tra le brasserie più chic di Parigi, nel cuore della rive gauche.

E nacquero polemiche infinite per il suo comportamento da ricco rappresentante della élite. Oggi è atteso a Mulhouse, e poi Strasburgo, che domenica ha scelto per un terzo il candidato della gauche, Jean-Luc Mélenchon. Giovedì il presidente candidato dovrebbe invece andare a Le Havre, feudo del suo ex primo ministro, Edouard Philippe. Come si vede un vero e proprio tour de force. Marine Le Pen, invece, se la prende più comoda. La candidata di estrema destra, infatti, intende limitare gli spostamenti per non arrivare stanca al confronto televisivo con Macron, previsto il 20 aprile. Un appuntamento decisivo che cinque anni fa perse malamente e che contribuì ad affossarla. Comizi della sfidante sovranista sono in preparazione ad Avignone, il 14 aprile ed Arras, una settimana dopo.

Come si vede, quindi, Macron, da candidato favorito, si impegna come se fosse in svantaggio e Le Pen, che è sfavorita, agisce come se avesse la vittoria già in tasca. Vediamo di capire perché succede. Il presidente in carica, come detto, non ha quasi fatto campagna elettorale ed è portatore di un programma non particolarmente appetibile dal punto di vista elettorale, anche se sostanzialmente corretto dal punto di vista economico. Tra l’altro la sua piattaforma politica prevede un innalzamento dell’età pensionabile a 65 anni. Un tema, assolutamente non rinviabile tenendo conto della demografia, ma che per anni è stato tabù in Francia e che ancora adesso è, politicamente parlando, come la kryptonite per Superman.

Fa perdere voti e non scalda i cuori, nemmeno di chi comunque ti voterà. Marine Le Pen, invece, ha imbroccato in campagna elettorale un tema vincente, quello del potere d’acquisto del francese medio particolarmente visibile in questi tempi di inflazione galoppante e di povertà sempre più diffusa. Poi ci sono i soliti temi identitari, ai quali ha messo la sordina, ma che ha ribadito anche domenica sera: dalla proibizione di ogni tipo di velo in pubblico al divieto di esporre le bandiere dell’Unione Europea negli uffici pubblici.

Certo, Macron ha dalla sua parte quello che viene chiamato il «barrage républicain», cioè il muro che si alza ogni volta che un candidato dell’estrema destra arriva al ballottaggio. Un muro che in effetti è già scattato. Tutti i candidati - a parte i due di estrema destra - hanno subito detto che i loro voti non andranno mai alla Le Pen. Tutti, a parte quello più importante, cioè Jean Luc Mélenchon che ha quasi il 22% dei voti e due marginali rappresentanti di partitini troskisti, hanno anzi detto che voteranno per Macron, pur nella differenza delle loro posizioni. Tutto bene, quindi? Non esattamente, perché nel 2017 c’erano ancora i partiti tradizionali - il partito socialista e quello gollista - i cui elettori avevano in qualche modo interiorizzato il «barrage républicain», visto che i due movimenti politici si erano formati a partire dalla sconfitta di un’altra Francia, quella collaborazionista di Vichy, i cui valori, in qualche modo, sono la parte invisibile dell’iceberg del Rassemblement National.

Ora invece i poli sono tre: uno di centro, rappresentato da Macron che è maggioranza relativa; uno di destra estrema, che si riconosce nella leadership di Marine Le Pen e uno di sinistra radicale che vede in Jean Luc Mélenchon il suo esponente principale. La domanda è: come si comporteranno gli elettori di quest’ultimo polo nei confronti di Macron? Si atterranno all’invito del loro leader - che stavolta al contrario del 2017 lo ha dichiarato forte e chiaro - e non voteranno Le Pen? E, in quest’ultimo caso, si limiteranno ad astenersi o si recheranno alle urne per Macron? Da queste domande, per ora di non facile risposta, dipende l’ansia di Macron che ora dovrà riverniciare con un po’ di tematiche di sinistra il suo discorso centrista. Con il rischio però di perdere qualche consenso a destra. Per Le Pen il compito è più semplice perché la retorica del populismo di destra che le appartiene può aiutarla a strappare qualche voto a sinistra, soprattutto in questi tempi confusi. Anche se Mélenchon ha fatto il pieno del voto giovanile che per molti aspetti è decisamente radicale in termini di diritti civili, di genere e sociali. E questi sono temi che lo spartito di Marine Le Pen non prevede.