1982-2022

Carlo Alberto Dalla Chiesa: dopo 40 anni restano le ombre

Domenico Cacopardo

Il 3 settembre 1982 il generale veniva assassinato a Palermo con la moglie. Fu davvero solo la mafia?

Pochi giorni prima mi aveva parlato delle difficoltà
di essere il rappresentante dello Stato a Palermo

Un natante delle forze si stava avvicinando con il fanale di profondità acceso.
«Hai preso il borsone?» Domandai a mio figlio.
Era sera tardi, avevamo cenato. «Sì, ho preso tutto: siamo in regola», mi rispose. Il motoscafo - erano carabinieri - ci identificò a vista e il graduato in comando, con voce rotta, gridò: «Signor consigliere, hanno ammazzato il generale Dalla Chiesa!»

A quei tempi, ero sotto tutela dell’Arma a causa di minacce delle Brigate rosse, ed era questa la ragione per la quale i carabinieri conoscevano i miei movimenti. Per di più, Carlo Alberto Dalla Chiesa in giugno, a cena a casa mia a Roma, mi aveva promesso di farmi visita a Letojanni. Di ciò era informata la locale stazione dei carabinieri.

Pochi giorni prima della tragedia era passato a trovarmi il generale comandante dei Ros, col quale ci eravamo trattenuti sull’attività di Dalla Chiesa come prefetto di Palermo e sulle difficoltà che incontrava.

Tema, questo delle difficoltà di essere il rappresentante dello Stato nel capoluogo siciliano che non sfuggiva all’interessato: me ne aveva parlato nella cena che aveva preceduto il suo trasferimento a Palermo.

La tecnica operativa usata da Dalla Chiesa, insegnatagli dal colonnello Ugo Luca (l’ufficiale che organizzò la trappola per il bandito Salvatore Giuliano) era quella di dividere i criminali, metterli l’uno contro l’altro e, quindi, colpire. Un sistema utilizzato anche nei confronti del terrorismo brigatista, insieme a un imponente lavoro di riscontri sul territorio. Ma la prefettura di Palermo non era il luogo dal quale organizzare una trappola.

Era un palazzo di un potere vuoto, inesistente che Carlo Alberto Dalla Chiesa avrebbe potuto rivitalizzare con il suo prestigio e la sua capacità di mobilitazione degli uomini.

E non credo che avesse avviato specifiche iniziative, salvo ciò che riguardava il coordinamento tra i corpi di polizia (tutti restii a farsi coordinare) e tra gli stessi e l’autorità giudiziaria. In quest’ultima, Rocco Chinnici il valoroso magistrato ucciso dalla mafia il 29 luglio 1983- dopo l’assassinio del capitano dei carabinieri Emanuele Basile (4 maggio 1980) aveva deciso di centralizzare le indagini sul crimine organizzato, chiamando a fare parte di quell’embrione di pool Giovanni Falcone, giovane magistrato proveniente dalla sezione fallimentare.

Avuta la notizia, rientrammo a casa. Da qui, mi collegai con il Comando generale dell’arma ed ebbi le prime notizie. Alle 21.15 circa di quel giorno, l’Autobianchi sulla quale Dalla Chiesa e sua moglie Emanuela Setti Carraro avevano lasciato Villa Whittaker (sede della prefettura), in via Carini, venne assaltata da una Bmw 518. Al contempo, una Honda di grossa cilindrata affiancò l’Alfetta sparando raffiche di Kalashnikov all’agente di scorta Domenico Russo che sopravviverà per 13 giorni. I Dalla Chiesa cessarono di vivere per l’effetto di 30 colpi di un altro Kalashnivok uguale al primo.

Il giorno dopo, accompagnato da mio figlio raggiunsi a Palermo la chiesa di San Domenico, il Pantheon della città. Via Roma, che conduceva alla chiesa, era gremita di gente.

Ero stato accreditato, ma nessuno controllò gli ingressi. Assistetti, commosso con gli altri, al triste rito, concluso dalla celebre omelia del cardinale Salvatore Pappalardo.

Giulio Andreotti, che in quel periodo (governo Spadolini II) non aveva incarichi di governo, non partecipò alle esequie e commentò con Giampaolo Pansa dicendo che ai funerali preferiva i battesimi.

La Corte di assise di Palermo (presidente Roberto Nobile) concluse un iter tormentato anche da depistaggi e condannò all'ergastolo Antonio Madonia e Vincenzo Galatolo e a 14 anni di reclusione Calogero Ganci e Francesco Paolo Anzelmo per la collaborazione con la giustizia. Altri criminali erano nel frattempo deceduti.

Nella sentenza si legge, tra l’altro: «Si può, senz' altro, convenire con chi sostiene che … persistano ampie zone d'ombra, concernenti sia le modalità colle quali il generale è stato mandato in Sicilia (praticamente da solo e senza mezzi) a fronteggiare il fenomeno mafioso … Cosa nostra ha potuto esercitare … l'assoluto dominio sul territorio siciliano … specifici interessi - anche all'interno delle istituzioni - all'eliminazione del pericolo costituito dalla determinazione e dalla capacità del generale».

Un testo discutibile che lancia accuse senza destinatario e senza specifiche prove.

La posizione di un prefetto era quella descritta. Per tutti eguale. E Carlo Alberto Dalla Chiesa lo sapeva. Ci si aspettava che il governo - presieduto da Giovanni Spadolini con Virginio Rognoni ministro degli interni, due galantuomini al di sopra di ogni sospetto - presentasse un decreto-legge per l’attribuzione di speciali poteri. Qualcosa di simile a ciò che era necessario, avverrà nel 1988, quando il magistrato Domenico Sica venne nominato (al posto di Falcone) alto commissario antimafia.

Rimangono sul tappeto due questioni: la mafia non uccide per vendetta i rappresentanti dello Stato. La circostanza induce a dubitare su un semplice efferato delitto di mafia. Potrebbe trattarsi di un delitto indotto dal timore che il generale potesse tessere una tela letale per la criminalità mafiosa.

Un’altra tesi appunta l’attenzione sul fatto che Carlo Alberto Dalla Chiesa aveva preso visione dei verbali degli interrogatori di Aldo Moro, anche quelli mai resi noti che entravano nel merito dei finanziamenti ai partiti. Si dice che, per questa ragione, ambienti politici avessero deciso che doveva morire: la mafia, uccidendolo, sarebbe stata esecutrice per conto terzi, gli stessi che scelsero, per Aldo Moro, la morte. Ipotesi non verificata allora né dopo durante i processi e ormai consegnata al back-stage dell’evento.

Fra i “si dice”, torna in evidenza la circostanza che la cassaforte di Villa Whitaker subito dopo l’assassinio nel generale e di sua moglie sarebbe stata trovata aperta e vuota. I documenti del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa erano spariti.

Naturalmente, la mano che aveva operato la sottrazione non fu individuata. Forse nemmeno cercata.

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