EDITORIALE

Riflessioni sulla crisi inglese

Augusto Schianchi

La nuova premier inglese Liz Truss, dopo Boris Johnson, è partita con il botto. All’inizio del suo mandato ha approvato una massiccia riduzione fiscale (con vantaggio prevalente per i redditi più elevati: 5.000 sterline in meno per un reddito di 200.000 sterline), finanziata con un corrispondente aumento del disavanzo pubblico. La manovra fiscale più espansiva degli ultimi 50 anni. Il deficit pubblico, oggi al 5%, salirà al 7%, e il debito pubblico (oggi al 91%) sfiorerà il 100% del Pil. Conti pubblici non drammatici, almeno se confrontati con quelli di altri paesi, per l’appunto come l’Italia.


Ma la reazione dei mercati finanziari è stata violentissima. Gli investitori internazionali hanno messo in vendita i titoli inglesi (a partire da quelli trentennali), riducendone il prezzo, e alzando i rendimenti dal 3,7% al 5,09% (un rimbalzo eccezionale per il mercato inglese). Contemporaneamente la sterlina è crollata, sia rispetto al dollaro (ha perso il 6,4%), che all’euro (meno 4.1%), peraltro debole in questo periodo. La Bank of England, la banca centrale più antica e prestigiosa, pur essendo un’istituzione indipendente dal governo, è intervenuta in misura corrispondente per salvaguardare la scelta fiscale del nuovo governo, comprando i titoli immessi improvvisamente sul mercato.
La causa di questa tempesta è presto detta. L’inflazione annua in Inghilterra è oggi al 10%. Una riduzione generalizzata fiscale pagata con nuovo disavanzo ha indotto gli investitori nel debito pubblico inglese a ritenere che con il nuovo debito l’inflazione aumenterà ulteriormente, quindi i tassi d’interesse dovranno salire, se non altro per impedire nuove svalutazioni della sterlina, che comporterebbe un’inflazione più elevata per effetto de

i beni importati. Con l’innesto di un meccanismo di avvitamento verso il basso di tutto il sistema economico.
Nelle competizioni elettorali, diversi partiti (anche in Italia) hanno messo al centro del loro programma la riduzione delle tasse, sollecitando il voto di chi le paga. L’idea, molto ragionevole, è che tasse più basse offrono una motivazione essenziale per accrescere l’iniziativa imprenditoriale, di conseguenza l’espansione dell’economia e la riduzione della disoccupazione. L’esempio a cui si fa riferimento è la politica dell’allora presidente americano Reagan (dal 1980 all’88), che ridusse le tasse, rilanciando l’economia americana, dopo il decennio disastroso degli anni ’70 (con alta inflazione e bassa crescita).
Il problema è che chi richiama la riduzione fiscale di Reagan dimentica un pezzo fondamentale della sua politica economica. Reagan ridusse le tasse, ma contestualmente aumentò la spesa pubblica, anzitutto quella militare (che portò poi l’Unione sovietica al collasso di fine decennio). Il tutto accompagnato con un rialzo esorbitante dei tassi d’interesse, che nel giro di pochi anni portò all’abbattimento dell’inflazione (oltre alla rivalutazione del dollaro).


La domanda è: come mai l’operazione riuscì a Reagan non è riuscita (per ora) agli Inglesi? La risposta è semplicissima: perchè gli Stati Uniti hanno il dollaro, che è una valuta di riserva internazionale, è richiesta da tutto il sistema del commercio mondiale, e tutti l’accettano come forma di pagamento. (In pratica: gli Stati Uniti importano merci che pagano con una moneta che stampano loro. Siamo d’accordo, non è giusto, ma funziona così).
Non è questo il caso della sterlina. Un brand di grande prestigio e tradizione (quando era convertibile in oro), che però oggi è una valuta marginale nel commercio internazionale, ed il cui valore dipende strettamente dalle politiche economiche dei propri governi.
Il sistema finanziario internazionale è costituito da una rete di valute interdipendenti, naturalmente di peso diverso, e per la manovra inglese non sono mancati gli effetti collaterali.
I fondi pensione inglesi sono scivolati sull’orlo del tracollo, perché utilizzano i titoli pubblici come garanzie delle proprie operazioni; se il valore dei titoli scende devono immediatamente reintegrare i margini a copertura e quindi sono costretti a vendere in perdita. Anche i titoli del Tesoro americano ne hanno risentito, perdendo frazioni di valore. L’erogazione dei mutui nel Regno unito è temporaneamente bloccata.


Per inciso i laburisti sono tornati in vantaggio sui conservatori, che godono per ora di una larga maggioranza in Parlamento.
Non è la prima volta che la Gran Bretagna finisce in queste trappole (rammentiamo gli anni ’70 e di recente la Brexit), in cui un mix di ambizione e presunzione distacca un sano senso della realtà.
L’economista verace (premio Nobel) Paul Krugman ha definito la manovra della Truss «da dementi».
Un’ottima occasione per noi italiani di riflettere su certe promesse elettorali.