Editoriale

La dipendenza da telefonino anche in classe

Patrizia Ginepri

«Non è mai troppo tardi» diceva il maestro Manzi negli anni '60. Grazie alle sue lezioni, trasmesse dalla Rai, migliaia di italiani hanno imparato a leggere e scrivere. Perché rispolverarlo? Come educatore era avanti anni luce, non sopportava la pedagogia senza contenuti e la superficialità delle definizioni.
Partiva dalle esperienze concrete quotidiane per trasformarle in scoperta e occasione di conoscenza. Possiamo definirlo, a pieno titolo, un antagonista, ante litteram, dell'apprendimento mordi e fuggi del «googolare» contemporaneo. E qui torniamo al presente. Come ogni anno il mondo della scuola si interroga e si divide sulle azioni da intraprendere per regolamentare l'utilizzo del cellulare in classe. Si va dai divieti drastici alle linee più permissive, con una consapevolezza unanime: la dipendenza da telefonino è cresciuta in modo esponenziale dopo la pandemia e non solo nei giovani. Con risvolti inquietanti, come insegna la cronaca recente. In un liceo di Latina, è passata la linea dura: cellulari ritirati per tutto il tempo di permanenza a scuola (per ben cinque ore filate, pensate un po') dopo gli episodi di cyberbullismo segnalati nel primo mese di lezioni. La rivolta degli studenti è stata immediata, con tanto di rissa causata da genitori e parenti, sedata solo con l'intervento della polizia.
Intendiamoci, non è una novità che squilli, chat e messaggi siano vietati durante le lezioni, ma ora sempre più istituti diventano phone-free, ultima frontiera per arginare questa schiavitù. Il dilemma, irrisolto, si ripropone: far sparire del tutto lo smartphone o insegnare a usarlo in modo corretto? Da un lato sembra impossibile chiedere ai ragazzi un distacco dal telefonino per tutta la mattinata, dall'altro è fondamentale indurli a riguadagnare l'attenzione e la concentrazione al lavoro in classe, al piacere di ritrovare lo sguardo degli altri. Per i più pessimisti, dire che bisogna insegnare a usare questo strumento è, ormai, una pura illusione. Basta guardare la corsa forsennata dei ragazzi al momento di riprendere l'oggetto del desiderio: sono ancora più attratti, in preda agli effetti dell'astinenza. Chi studia il fenomeno, non a caso, parla di droga. I cellulari hanno un potere di iperstimolazione e di distrazione molto elevato. Non solo. Offrono continuamente alternative più gratificanti nell’immediato, ostacolando il processo di concentrazione e l’utilizzo delle funzioni cognitive complesse. Vietarli a scuola comporta un netto calo dell'aggressività – ben venga se pensiamo agli ultimi episodi accaduti a Parma -, ma anche un aumento di capacità cognitive, memoria e attenzione e, soprattutto, favorisce le relazioni. Detto questo e nonostante le evidenze, il fronte di chi vuole il telefonino in aula è piuttosto ampio, perché è del tutto sbagliato demonizzare uno strumento che, volente o nolente, è diventato parte integrante della vita degli studenti, con le sue funzioni connaturate con le abitudini stesse dei ragazzi, alcune oggettivamente di grande utilità.
Il problema resta e perseguita dirigenti e insegnanti da anni: esiste una terza via fra il «sequestro» mattutino dello smartphone e il delirio compulsivo che devasta attenzione e didattica, quando questo è lasciato in mano agli studenti? In altre parole, come si fa a privare gli adolescenti di uno strumento che è il grimaldello della loro vita quotidiana, l’oggetto – prezioso e al contempo scontato - che intermedia, sovrappone e cuce fra loro i diversi livelli dell’esistenza? E al tempo stesso, come si riesce a tutelare la dignità di una mattina d’insegnamento che merita il giusto raccoglimento, una decente soglia d’attenzione e quel poco di rispetto che ancora si deve a un’aula scolastica, il primo e forse unico investimento sul nostro futuro? Alberto Manzi aveva ragione, non è mai troppo tardi per imparare: il sapere inteso come educazione al pensare, libertà e liberazione per sé e gli altri.