Editoriale

Perchè è pericoloso parlare di atomica

Paolo Ferrandi

«Le parole sono importanti», gridava con rabbia Michele Apicella, alter ego di Nanni Moretti, a un’attonita giornalistica che lo intervistava a suon di luoghi comuni, nel suo film più bello, cioè «Palombella rossa». E che le parole siano importanti lo sappiamo benissimo anche noi, visto che un sì, detto sull’altare, ci lega – o, almeno dovrebbe legarci – in un vincolo indissolubile «finché morte non ci separi». Con le parole, diceva il filosofo John Austin a volte facciamo cose, come promettere, giurare e minacciare. Tutte azioni che incidono sulla nostra vita. A volte in modo importante, tanto che può bastare una parola per ferirci in modo irrimediabile.

Proprio perché le parole non sono mero «flatus vocis», ma sottintendono una costellazione di significati e anche di azioni, dovremmo preoccuparci della recente escalation verbale attorno alla guerra in Ucraina con tanto di minacce nucleari assortite: la Russia che ammonisce l’Ucraina, l’Ucraina che accusa la Russia, la Russia che se la prende con gli Stati Uniti e l’intero Occidente e gli Stati Uniti che mettono in guardia la Russia. Il tutto con un sottofondo di sciabole tintinnanti che non si sentiva in modo così distinto dai periodi più critici della guerra fredda, in primis dalla cosiddetta «crisi di Cuba», in cui, in effetti, si andò vicini all’olocausto nucleare.

Per tutta la guerra fredda la dottrina nota come «Mad» - letteralmente «folle», in inglese, ma anche acronimo di «mutual assured destruction», cioè «distruzione mutua assicurata» - ha reso possibile quello che veniva chiamato l’«equilibrio del terrore», cioè la consapevolezza, condivisa da Stati Uniti e Unione Sovietica, che a qualunque atto di guerra nucleare sarebbe seguita una risposta talmente devastante da rendere, appunto, «folle» l’aver intrapreso per primi le ostilità. Era un gioco, per citare un altro bel film, «Wargames», in cui tutti perdevano e nessuno vinceva e che quindi non valeva nemmeno la pena di iniziare, se non per una «cupio dissolvi», un fortissimo impulso di morte. Questa versione estrema e parossistica della dottrina del «balance of power», il bilanciamento dei poteri, ci ha protetti in uno dei momenti più bui della nostra storia recente.

Solo che con la fine dell’Unione Sovietica e la fine della guerra fredda il mondo è cambiato. Per certi versi in meglio, ma per alcuni aspetti in peggio. La situazione mondiale è diventata più fluida, nuovi poteri regionali e anche globali (come la Cina) si sono affacciati sulla scena mondiale, una delle due superpotenze (la Russia) ha perso gran parte del suo status e del suo potere, ma non la sua capacità nucleare e l’altra (gli Stati Uniti) alterna momenti di disinteresse totale per il resto del mondo, come durante la presidenza di Donald Trump, a un attivismo benevolo, ma frenetico e forse troppo impulsivo, mischiati naturalmente ai sempre presenti interessi nazionali che, alla fine, sono quelli che dettano la politica estera.

Se lo scenario geopolitico è cambiato, altrettanto cambiata è la tecnologia nucleare e, purtroppo, anche il quadro regolatorio che avrebbe dovuto imbrigliarla. Dopo anni di grandi speranze, infatti, i trattati sul disarmo languono o, peggio, non vengono rinnovati e si assiste a una nuova corsa a produrre nuove armi di distruzione di massa. Al tempo stesso in alcune aree del mondo, per esempio il Medio Oriente, nuove Nazioni anelano ad avere armi atomiche soprattutto se altri Stati nell’area già le posseggono. Il caso di Israele e della sua mai esplicitata capacità nucleare e quello dell’eterna corsa dell’Iran ad aggiungere l’atomica al suo micidiale arsenale è emblematico. Per non parlare dell’India e del Pakistan. E tutto alla salute dei trattati di non proliferazione e degli sforzi delle Nazioni unite per limitare il numero degli Stati con capacità nucleari.

Dal punto di vista della tecnologia si è passati dai grandi missili balistici intercontinentali a testate multiple che erano l’ossatura dell’arsenale dell’epoca dell’equilibrio del terrore allo sviluppo di vettori - magari ipersonici, quindi praticamente non intercettabili - e testate con minore capacità distruttiva (almeno rispetto a quelle dei missili Icbm) da usare non per assicurarsi la mutua distruzione, ma all’interno di un conflitto di tipo tradizionale.

È proprio questo la sviluppo che fa più paura. Una volta svincolati dal tabù della distruzione dell’intero globo, infatti, a qualcuno può venire la voglia di provare a trarre un vantaggio da un conflitto limitato, capace di provocare un’immane distruzione, ma non di bruciare il mondo. Sempre che gli altri stiano a guardare. E questo è il punto. Gli altri - volenti o nolenti - non possono rimanere a guardare. E quindi l’escalation è assicurata.

Questi sono i motivi perché sono sempre più preoccupanti queste continue minacce. Il rischio è, appunto, che alla fine, visto che tutti camminano su un piano inclinato, si arrivi a una guerra nucleare senza che nessuno abbia calcolato i rischi. Solo per piccoli sviluppi incrementali. Ma dalla palla di neve dei discorsi infuocati alla valanga provocata da un fungo atomico il passo può essere breve.