Editoriale
Il voyeurismo dei media avvelena la società
Uno degli errori madornali che rischia di commettere chi fa informazione è credere che l’abbondanza di particolari sia sempre sinonimo di buon giornalismo. Si è portati spesso a ritenere che un’overdose di elementi descrittivi di un evento sia garanzia di ricchezza narrativa e di coerenza con la missione dei media, che è quella di informare l’opinione pubblica su fatti di interesse pubblico. Arricchire l’illustrazione di un avvenimento con qualsiasi ingrediente venuto alla luce appare il più delle volte la bussola orientatrice del giornalista che, per tenere desta l’attenzione dei cittadini, riversa nei circuiti mediatici tutto ciò che scopre, senza alcun filtro e dunque rinunciando ad esercitare quel sano e maturo discernimento che è il vero elemento distintivo tra il cronista «acritico passacarte» e il professionista dell’informazione che sa mediare in modo equilibrato tra i fatti e l’opinione pubblica. In altri termini, se colui che fa informazione abdica al suo ruolo di selezionatore dei particolari del racconto, dimenticandosi di espungere quelli superflui o che addirittura rischiano di ledere i diritti dei protagonisti dei fatti, ci troviamo di fronte a un esempio non già di buon giornalismo ma di spettacolarizzazione della realtà.
Se poi questa realtà è addirittura una realtà di dolore, il confine del rispetto della dignità umana risulta travalicato e l’informazione cede il posto al voyeurismo e alla drammatizzazione delle fragilità e delle sofferenze. Con un’espressione molto icastica si è parlato di pornografia del dolore, intesa come enfatizzazione del macabro che asseconda la curiosità morbosa del pubblico, sovente attratto da immagini cruente, spettacoli di morte, scene di violenza estrema.
Un vizio antico della televisione, direbbe qualcuno. La verità è che questa degenerazione si riaffaccia all’orizzonte in occasione di tragici delitti come quello di Giulia Tramontano e del bimbo di 7 mesi che portava in grembo, uccisi in modo barbaro dal suo compagno, che in realtà aveva una doppia vita.
Di quel delitto è stato raccontato praticamente tutto. Nessun giornalista impegnato a ricostruire quell’atroce assassinio si è posto la domanda fondamentale che ogni operatore dell’informazione dovrebbe porsi nel quotidiano esercizio del diritto di cronaca: “Fino a che punto mi posso spingere?”. E’ un quesito che con scrupolo ogni cronista dovrebbe porsi anche rispetto alla pubblicazione di notizie accertate, ma ancor più di fronte a indiscrezioni da appurare, pettegolezzi da decifrare, foto o immagini private e intime rintracciate tramite canali confidenziali o sui social.
Quanto sta accadendo negli ultimi giorni in occasione della barbara uccisione di Giulia Tramontano ha riacceso i riflettori sulle degenerazioni di certa informazione che specula per miseri interessi di bottega sui drammi personali e famigliari, violando la privacy e la dignità di persone straziate dal dolore (famigliari) o addirittura non più in vita.
La diffusione di dati sensibili, tra cui le chat di WhatsApp di Impagnatiello, reo confesso, oppure le descrizioni macabre degli esiti dell’autopsia sul corpo della vittima o, ancora, l’accanimento sul lago di sangue trovato sul pianerottolo del luogo del delitto disegnano un quadro a tinte fosche dal punto di vista della mancata correttezza dell’informazione.
Di Giulia Tramontano e del suo assassino ormai sappiamo davvero tutto. Manca forse soltanto il gruppo sanguigno per poter dire di conoscere ogni loro più intimo particolare. La vita di una giovane donna incinta di sette mesi uccisa brutalmente dal fidanzato è stata passata ai raggi X da un’informazione morbosa e invadente.
Ci troviamo dinanzi all’ennesima brutta pagina del giornalismo di cronaca nera. E’ stato calpestato il requisito dell’essenzialità dell’informazione, che impone ai giornalisti di selezionare accuratamente i particolari di una notizia anziché divulgarli tutti senza filtri e senza alcuno scrupolo, senza cioè preoccuparsi che possano offendere la dignità dei protagonisti o amplificare la sofferenza delle persone. Si legge all’art.8 del Codice deontologico dei giornalisti in materia di rispetto della privacy: “Salva l’essenzialità dell’informazione, il giornalista non fornisce notizie o pubblica immagini o fotografie di soggetti coinvolti in fatti di cronaca lesive della dignità della persona, né si sofferma su dettagli di violenza, a meno che ravvisi la rilevanza sociale della notizia o dell’immagine”. La dignità della persona deve dunque funzionare come limite invalicabile nell’esercizio della libertà d’espressione, tanto più in occasione di vicende dolorose come quella di Giulia Tramontano. Quando ciò non si verifica è soprattutto perché il giornalista ritiene rilevanti socialmente alcuni particolari o immagini della vicenda narrata che in realtà non lo sono affatto.
L’accanimento stucchevole al quale stiamo assistendo ha ben poco a che fare col giornalismo. Puntate-fiume di trasmissioni in ogni fascia oraria sono dedicate esclusivamente o quasi a quella tragedia, ma senza che vengano aggiunti particolari preziosi per la ricostruzione dell’accaduto. Una tv del genere, appiattita sul dolore e la disperazione, alimenta l’intimo e perverso desiderio di osservare i drammi degli altri, contribuisce ad esacerbare gli animi, a incattivire la società, a brutalizzare i comportamenti e le reazioni ad atroci ed efferati delitti come quello di Giulia Tramontano, ma non arricchisce il diritto dei cittadini ad essere correttamente informati. Li turba, risveglia in loro gli istinti di odio e rivalsa nei confronti di un assassino senza scrupoli, ma non fornisce particolari utili alla completezza del racconto. Al sensazionalismo dilagante bisognerebbe sostituire la sobrietà dei toni, la delicatezza del linguaggio, mettendo al centro la profonda umanità dei protagonisti dei fatti e la sensibilità di chi quei fatti deve apprenderli dai mezzi d’informazione per poi valutarli in assoluta libertà e autonomia. Le colpe sono attribuibili in larga misura all’enfasi che i media pongono sul negativo, marginalizzando per ragioni di audience gli innumerevoli esempi di realtà costruttive che animano il quotidiano e assicurano la tenuta del patto sociale.
Purtroppo, però, le piattaforme web e social, che potrebbero rappresentare un potente contrappeso rispetto a una tv che indulge alla drammatizzazione della realtà, spesso si rivelano gli amplificatori delle pulsioni più distruttive. Con buona pace di quanti auspicano una Rete al servizio dell’uomo e della società.