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Automotive, l'Italia non ha più un posto al tavolo che conta
Se a qualcuno fosse ancora rimasto il dubbio che l’industria automobilistica italiana è in agonia, glielo toglierà la email recapitata a 15mila dipendenti italiani di Stellantis nella quale si invita a seguire “nuovi progetti professionali o personali” (una formula elegante per dire di togliersi dai piedi) entro la fine dell’anno. 15mila, un terzo del totale. E molti se ne andranno, perché la “clausola di sicurezza” prevede incentivi calcolati ad hoc in base a età e anzianità.
L’Italia nel Gruppo che Elkann ha elegantemente consegnato ai francesi (comanda l’ex Gruppo PSA con Carlo Tavares al timone) conta sempre meno. La nuova italianissima Fiat è un progetto francese prodotto in Polonia. La fabbrica di Grugliasco è in vendita, lo stesso vale per la palazzina di colletti bianchi di Cassino, la futura generazione della Maserati Quattroporte pare non vedrà la luce. Può bastare?
E’ vero che l’automotive è nel pieno della transizione energetica, deve rivedere organici, competenze e modelli di produzione (anche Volkswagen deve tagliare un quinto dei suoi 40mila amministrativi) e i cambiamenti sono all’ordine del giorno. Ma l’idea che il Made in Italy oggi come oggi non valga più tanto - nicchie come Ferrari escluse - è palpabile. Non è un fatto di nostalgia per mamma Fiat né la tristezza per il ridimensionamento di marchi che hanno fatto la storia, da Alfa Romeo a Lancia.
Il fatto è che un’industria automobilistica forte è anche un biglietto da visita importante nelle relazioni economiche e industriali con gli altri paesi che contano nel settore, Francia e Germania in primis. Rischiamo di non avere più un posto a tavola…