Editoriale

E' finita l'epoca del voto in libera uscita

Luca Tentoni

La grande stagione della volatilità elettorale si è forse conclusa. Dalle elezioni politiche del 2022 in poi si è assistito ad una riduzione valutabile fra i due terzi e i tre quarti degli spostamenti di voto fra i partiti. Nel passaggio fra le politiche e le europee, infatti, ha cambiato scelta non più del 10,3% di chi è andato alle urne (cioè, circa il 5-6% degli aventi diritto al voto), mentre negli anni Dieci si era arrivati oltre il 25-30%; fra le politiche e le rilevazioni campionarie di un mese fa la volatilità è del 9,3% (che scende al 2,6% fra le europee e il mese di settembre).
Se si calcolano i poli, si vede che, considerando destra da una parte ed ex "campo largo" dall'altra, la volatilità per blocchi è stata del 2,5% fra le politiche e le europee e del 3% fra le politiche e i giorni nostri; fra destra e "campo semi largo" (senza Azione e Italia viva) la volatilità è del 2,2% fra politiche ed europee e del 2,7% fra le politiche e lo scorso mese.
Ciò vuol dire che il mercato elettorale, così in fermento fra il 2011 e il 2021, si è stabilizzato, come nel periodo 1994-2008. I movimenti maggiori avvengono dentro le aree politiche, cioè fra M5s e AVS e fra Pd, M5s e Terzo polo. Nel complesso, la destra è passata dal 43,8% del 2022 al 47,4% del 2024.
Mentre il campo largo completo scende dal 49,3% al 47,9% e - in versione senza Calenda e Renzi - dal 41,5% al 40,8% (42,3% se consideriamo la quota stimata di Più Europa nella lista con IV alle europee). In sintesi, fra i due poli intesi in senso ampio c'è stato un passaggio di voti non superiore all'1,5-2% dai centristi del Terzo polo a destra, mentre sono irrilevanti i transiti da destra a sinistra. I dati delle elezioni politiche ed europee ci dicono questo, ma anche che il sistema è ormai incardinato su due partiti principali (FdI e Pd) come nel 2008 (Pdl e Pd), su tre in lizza per il terzo posto (M5s, FI, Lega) e altri quattro intermedi (AVS, Più Europa, Azione, IV) più almeno tre o quattro minori (fra i quali Noi moderati, che è nel centrodestra e alle europee si è presentato insieme a Forza Italia). La fine della grande mobilità elettorale rende ormai poco redditizia una politica "a tutto campo", come fu quella che portò il M5s nel 2018 al 32% e Salvini nel 2019 al 34% dei voti. Si sposta poco, dunque, il che spiega anche la stabilità (con leggero progresso) dell'area di governo e quella del "campo largo o larghissimo". C'è una nuova polarizzazione unita al ricompattamento dell'elettorato, che dimostra una fidelizzazione non forte come durante la Prima repubblica, ma "necessitata" e comunque un po' più netta rispetto agli anni Dieci. Dopo un'epoca nella quale eravamo passati da due bacini elettorali non comunicanti fra loro (Polo e Ulivo) a tre blocchi (la destra e la sinistra non si scambiavano voti, ma entrambi li cedevano al M5s) e, oggi, di nuovo a due blocchi (le divisioni a sinistra non cambiano la struttura dell'elettorato, che si redistribuisce fra i partiti dell'area ma non esce). In questo quadro, si osserva che la perdita di voti verso destra da parte del Terzo polo sembra connotare oggi Azione e IV come la parte più moderata del centrosinistra. In tutto questo, le elezioni regionali e amministrative non c'entrano nulla: le dinamiche locali, i candidati alla presidenza o gli aspiranti sindaci spostano voti solo nelle zone dove ha luogo la consultazione, ma non sono indice di tendenze nazionali. In altre parole, la Liguria, l'Emilia-Romagna e l'Umbria non saranno vinte dai poli nazionali più o meno coesi, ma dai candidati e dalle coalizioni regionali, senza che questo cambi l'orientamento dell'elettorato nazionale o che sia il segnale di un mutamento che - a livello globale - oggi non appare rimarchevole. Semmai si deve sottolineare che permane la tendenza all'"exit", cioè a passare dal voto all'astensione: anche questa è una scelta politica, ma evidentemente è "bipartisan" perchè non influenza gli equilibri fra i poli.