EDITORIALE
Trump, dazi, incertezze e l'eterno ritorno del dollaro
Il presidente Trump ha un piano. In verità ne ha tanti, finora nessuno completamente realizzato (a parte la deportazione di qualche centinaio di immigrati criminali in El Salvador, ma questa è un’altra storia).
Il piano di Trump è quello di utilizzare la leva dei dazi per ricontrattare i rapporti commerciali con tutti paesi (ovviamente a partire dalla Cina e dall’Europa), così da ridurre lo squilibrio commerciale per le merci degli Stati Uniti, e contestualmente favorire una graduale riduzione del tasso di cambio del dollaro per aumentare la competitività dell’industria americana. Niente di nuovo: a Ferragosto del 1971, Nixon cancellò la convertibilità del dollaro in oro, con un rapporto predeterminato in 35 dollari l’oncia, come fissato a Bretton Woods nel 1944, con un blitz degli Americani all’ultimo istante in opposizione al piano di J.M. Keynes, insigne economista, rappresentante della Gran Bretagna. Il Nixon Shock -oltre all’annullamento della convertibilità del dollaro- consisteva nell’imposizione di un dazio del 10 percento verso le importazioni di tutti i paesi, che non avessero rivalutato la propria moneta (la quale, una volta rivalutata, faceva decadere il dazio). Ne conseguirono, nel corso dei 18 mesi successivi, tra gli altri, un enorme rafforzamento del marco tedesco e dello yen giapponese.
Oggi però per Trump c’è un nuovo problema. In questi 50 anni il sistema economico globale è profondamente cambiato. È arrivata la globalizzazione, sospinta dall’ingresso della Cina sui mercati mondiali; si è enormemente dilatato il volume della finanza alla ricerca di rendimenti più favorevole (in termini d’interessi), “sicuri” (requisito indispensabile), e liquidi (cioè, immediatamente smobilitabili). Lo stesso scambio di merci sui mercati è stato affiancato in parallelo dal mercato dei servizi, che va a controbilanciare (almeno in parte) lo squilibrio nel mercato delle merci. Non a caso, anche dal punto di vista delle rilevazioni statistiche degli scambi internazionali, il dato da controllare non è più la sola bilancia commerciale per le merci, ma bisogna considerare “l’avanzo/disavanzo delle partite correnti”, che rileva tutto (salvo qualche dettaglio marginale come le donazioni internazionali) lo scambio economico tra i paesi nella loro interezza.
Per Trump c’è un problema perché lo scambio di merci non è l’unico termine di riferimento, ma bisogna considerare anche i servizi (è il caso dell’Europa, dove se si sommano merci più servizi, l’avanzo europeo si riduce a 50 miliardi). Non solo, ma c’è un secondo problema: se la Riserva Federale non ridurrà contestualmente i tassi d’interesse, continuerà l’afflusso negli Stati Uniti di capitali da tutto il mondo, continuando così a sostenere il cambio del dollaro, e annullando a priori l’obiettivo ricercato da Trump.
Inoltre, se si svaluta il dollaro, in America risalirà l’inflazione, con effetti sociali disastrosi sul piano sociale, già afflitto da problemi di disuguaglianze sempre meno tollerabili. Perché l’inflazione è una componente decisiva nel determinare i risultati elettorali, con scadenze che in America si ripetono ogni 2 anni.
La globalizzazione (sostenuta dall’innovazione tecnologica) non solo ha rivoluzionato i mercati mondiali, ma ha cambiato anche la teoria economica. Non ha sostituito le singole “leggi”, ma ne ha cambiato la natura stessa, perché tra esse nei casi concreti sussiste una mutua interdipendenza. Il sistema economico è un sistema interconnesso, di vasi comunicanti: se si interviene per cambiare il livello di un vaso, automaticamente si va a cambiare tutto il resto, con estrema incertezza su quello che potrà essere il risultato finale. Anzi nella maggior parte dei casi, si otterrà l’opposto dell’obiettivo originario.
In merito al futuro del dollaro, alcuni trend in atto lasciano intravvedere tracce significative di un processo di evoluzione per i prossimi anni.
Il dollaro si svaluterà, anzitutto perché è attualmente (con uniformità di criteri) sopravalutato; e poi perché l’esuberanza caotica di Trump, accoppiata all’enorme ammontare del debito pubblico americano, ha sottilmente indebolito l’immagine di una stabilità degli Stati Uniti a lungo termine, e questo sta dirottando parte dei flussi di capitale verso paesi più sicuri (ad esempio, la tradizionale Svizzera, anche se lì il rendimento è nettamente minore e le commissioni bancarie assai più elevate).
Nel frattempo, altre monete stanno ricercando uno spazio per aspirare ad una posizione di valuta di riserva (che -come sempre evidenziato- offre grandi vantaggi). L’euro in primis, che occupa già il secondo posto, con una quota attorno al 20 percento. Ma fino a quando l’Europa non farà sostanziosi passi avanti verso un’unione federale, con una sua omogeneità effettiva ed incisività politica globale, è difficile prevedere possa avanzare nell’affermazione dell’euro.
Poi c’è lo yuan/renminbi. La Cina sta già cercando d’imporre la propria valuta sui paesi vicini con i quali scambia merci di ammontare significativo (esempio il Vietnam) ed occupa nei loro riguardi una posizione di padronanza economica. Ma per la Cina c’è un problema: il renminbi non è convertibile, è emesso da un paese non democratico (comanda solo il Partito Comunista, senza tripartizione dei
poteri), quindi non è accountable (non rende conto a nessuno); infine non produce statistiche economiche affidabili (che -in verità- nemmeno le autorità cinesi conoscono!). La quota del renminbi non raggiunge ancora il 5 percento, e lo attende una strada molto lunga, sempre che sia affiancato da un processo di democratizzazione del paese. Per inciso, ad oggi -in coincidenza- la Cina ha già emesso una sua moneta digitale per un uso esclusivamente interno.
Vi è poi il mondo delle cryptocurrencies, nelle sue varie denominazioni e configurazioni (tra le ultime, le stablecoins, la cui diffusione oggi è già pari a 240 miliardi di dollari), che occupano una quantità significativa in rapporto al PIL mondiale. Ne abbiamo già discusso a lungo, le criptovalute hanno un senso per i giocatori d’azzardo e per chi lavora nell’economia illegale, perché “sotto il vestito niente”.
In fase poi di studio avanzato e di prossima immissione sul mercato, ci sono le “monete digitali” emesse dalle banche centrali, come quella europea e inglese. È una moneta semplice da concepire -un bancomat associato ad un conto corrente- ma molto delicata da inserire nell’attuale sistema finanziario.
Per l’euro, deve essere emessa in misura “regolata”, per non danneggiare troppo il processo d’intermediazione bancaria (potrebbe tagliar fuori una fetta della raccolta dei depositi bancari). Ma non troppo limitata, perché l’ammontare dei depositi raccolti a fronte dell’emissione della nuova moneta digitale, potrebbe costituire un tesoretto per finanziare l’eventuale emissione di nuovo debito comune europeo.
Questa evoluzione delle monete nel sistema finanziario globale è positiva, nella misura in cui arricchisce le opportunità per gli operatori finanziari, in funzione degli scambi internazionali e degli investimenti del risparmio mondiale. Non sarebbe positiva se contribuisse ad aumentare il già elevato livello d’incertezza, che va a bloccare alle origini gli incentivi agli investimenti.
In ogni caso, in prospettiva, non si sbaglierebbe troppo ad immaginare una dominanza relativa del dollaro per (almeno) i prossimi 25 anni, seppure con una quota relativa declinante (almeno rispetto al picco del 2015), e con tassi d’interesse a lungo termine in crescita.
Il mondo è strano: tutti sono antiamericani, con punte di odio vero e proprio, ma poi, quando emergono i problemi… tutti cercano riparo, per i propri beni più preziosi, proprio negli Stati Uniti. Che hanno un sacco di problemi, ma sotto detengono una capacità di resilienza oggi ineguagliabile.