EDITORIALE

Israele-Iran. Non è più Trump a decidere i giochi

Pino Agnetti

Ormai, è Trump contro Trump. Già lo si era visto e capito ampiamente con l’ottovolante dei dazi, per altro lontano dal fermare la propria folle corsa (al G7 di pochi giorni fa in Canada l’ultima proposta europea di un dazio fisso reciproco del 10% sugli scambi commerciali con gli Stati Uniti è rimasta malinconicamente sul tavolo senza uno straccio di risposta). Ma con il suo atteggiamento nei confronti dell’Iran - attacco, non attacco, anzi no attacco ma fra due settimane - Trump si è definitivamente candidato a diventare il presidente più ondivago dell’intera storia americana. Intendiamoci, non che la decisione di mandare o meno gli aerei da guerra più moderni e letali mai costruiti finora a bombardare le centrali nucleari degli ayatollah possa essere presa sui due piedi e a cuor leggero. Il fatto è che mai come in questo momento il «Commander in chief» della prima super potenza mondiale è apparso prigioniero di tutto e di tutti. In primo luogo della sua stessa base elettorale e della sua stessa amministrazione, spaccate entrambe a metà fra «interventisti» (o «falchi» che dir si voglia) e «isolazionisti» (che tradotto per i non addetti ai lavori significa semplicemente «gli altri si facciano pure gli affari loro, che noi ci facciamo i nostri»).

Proprio parlando a questi ultimi, Donald II (il primo, quello eletto nel 2016, era più o meno uguale nella sostanza e tuttavia almeno nella forma decisamente più moderato di quello attuale) ha costruito gran parte del proprio successo politico (i maligni dicono anche finanziario). Promettendo alla parte meno ricca e con più problemi dell’America di portarla in un battibaleno nell’universo fatato di «Maga» (l’ormai celebre acronimo che sta per «Make America great Again»). Promettendo pure che - testuale - «farò finire tutte queste guerre eterne e senza senso» (riferito in principal modo all’Ucraina e a Gaza) e che, in nome dell’«America First» - cioè prima l’America - con lui al comando gli Stati Uniti non avrebbero preso mai più parte a un conflitto se non per difendere se stessi. Da qui anche il suo progressivo e più volte minacciato «distacco» dalla Nato e dall’Europa, oltre che dall’Ucraina ripetutamente accusata di essere la vera causa del proprio male (con l’implicita assoluzione di quel «simpatico gentiluomo» di Putin). Ebbene, di tutto questo carrozzone ideologico e propagandistico non è rimasto in piedi praticamente nulla. A dirlo è proprio il «popolo Maga», che di una partecipazione americana a una nuova guerra in Medio Oriente non ne vuole neppure sentire parlare. Non ne vuole sentire parlare neppure il giornalista preferito da Trump, Tucker Carlson, che sul suo canale Youtube ha fatto letteralmente a pezzi il povero senatore repubblicano Ted Cruz (favorevole all’intervento). «Lei sa quante persone vivono in Iran?», ha chiesto sornione l’ex star di Fox News che, di fronte a uno che ammetteva farfugliando di non averne la minima idea, ha sfoderato la spada da toreador per «matare» la sua ingenua vittima con un micidiale: «Senatore, mi sta dicendo che non conoscete la popolazione del Paese che volete rovesciare?». A completare il quadro ci ha pensato un sondaggio del Washington Post, da cui è emerso che l’82% degli americani guarda con preoccupazione a un intervento su vasta scala in Iran e che comunque solo il 25% è favorevole a un attacco aereo statunitense contro le sue centrali nucleari. Di ben 20 punti più alta è la percentuale dei contrari - il 45% - mentre gli incerti sono il 30%. Ma il dato di gran lunga più significativo del sondaggio è che pure fra gli elettori di Trump il 54% (vale a dire più della metà) si dichiara contrario oppure indeciso. Oltre che con la propria base in ebollizione, Trump deve fare i conti con la crescente insubordinazione di una nutrita pattuglia di suoi fedelissimi, o ex tali. Fra i primi, troviamo la deputata della Georgia Marjorie Taylor Greene, divenuta famosa anche all’estero per avere festeggiato dopo la morte di papa Francesco. Seguita a ruota dal suo collega del Kentucky, Thomas Massie, addirittura schieratosi a favore del disegno di legge con cui i Democratici vorrebbero impedire al presidente di intraprendere qualsiasi azione ostile contro l’Iran senza l’approvazione preventiva del Congresso. Fra i secondi, menzione di merito per l’ex «stratega» della Casa Bianca Steve Bannon, arci convinto che un’America in guerra con l’Iran «farebbe saltare in aria» l’intera coalizione dei sostenitori di Trump. Per una linea negoziale «fino all’ultimo» con gli ayatollah sono, infine, il segretario di Stato, Marco Rubio, e la direttrice dell’intelligence nazionale Tulsi Gabbard. Quest’ultima, dopo avere fatto circolare più di un dubbio circa l’effettiva volontà di Teheran di arrivare a dotarsi dell’atomica, è stata liquidata da Trump (che pure l’aveva scelta personalmente) con un perentorio «Non mi interessa cosa ha detto», per poi sparire del tutto dagli schermi.

Dietro l’ultimo (alzi la mano chi lo ritiene davvero tale) annuncio trumpiano di altre due settimane di tempo concesse alla leadership iraniana per evitare l’inevitabile, c’è dunque tutto questo. Ma non solo. C’è che Trump si aspettava da Putin uno «scambio alla pari» (tu mi fermi gli ayatollah, io ti lascio carta bianca sull’Ucraina) che invece, almeno per ora, non è arrivato o è arrivato per metà (nel senso che intanto gli attacchi russi sui civili ucraini hanno raggiunto i livelli più alti dall’inizio della invasione). C’è che la Cina (l’altro nume protettore insieme alla Russia della infernale teocrazia iraniana) tanto per dimostrare la propria buona volontà ha mandato tutte le sue portaerei a «esercitarsi» nello stesso tratto di mare da cui dovrebbero passare quelle americane per portare aiuto a Taiwan nel caso di un attacco di Pechino a quest’ultima. C’è che l’operazione «Leone nascente» con cui Israele sta cercando di fermare una volta per tutte la corsa all’atomica di Khamenei e soci non è stata lanciata - contrariamente a quanto detto e scritto da molti santoni della geopolitica abbonati a non prenderci mai - con «il pieno assenso» di Washington. Bensì, come per altro era ovvio e scontato, informandolo in anticipo. Cosa, comunque, ben diversa da un attacco deciso in simultanea da Netanyahu e Trump! Lo stesso Netanyahu ha dichiarato ieri che «fermeremo il nucleare iraniano con o senza Trump». A emergere sempre più chiaramente, dunque, è che i destini del mondo e non solo di questa guerra (che sempre stando alle promesse iniziali di Trump non sarebbe mai dovuta scoppiare) non si decidono più solamente nello Studio Ovale. Può piacere o non piacere (a Trump, no di certo!). Ma è del tutto evidente che così stanno le cose. In questo «Grande gioco», per usare l’espressione coniata dagli storici al momento del disfacimento dell’impero britannico in Asia e in Medio Oriente, cosa possono e devono fare allora gli europei? Probabilmente poco, per quanto riguarda la prima parte della domanda. Di tutto e di più, per quanto attiene invece alla seconda. A maggior ragione dopo che l’Aiea (l’Agenzia internazionale per l’energia atomica) ha suonato l’allarme di una possibile catastrofe nucleare causata dai bombardamenti sulle centrali iraniane. Ieri a Ginevra, i ministri degli Esteri di Gran Bretagna, Germania e Francia si sono incontrati con il loro omologo iraniano, mentre da Roma Giorgia Meloni ha chiamato Netanyahu. Inutile aspettarsi miracoli, però almeno c’è qualcuno che dà retta al drammatico appello di papa Leone XIV a «metterci insieme per cercare di fare qualcosa». Intanto, da Teheran un portavoce del regime ha affermato che «Trump può mettere fine alla guerra con una telefonata». Può essere. Ma siamo proprio sicuri che, anche facendola, Mr Maga abbia in mano le carte giuste per chiudere la partita?