editoriale
I dazi di Trump: meno regole condivise e più muscoli
I primi mesi della presidenza Trump sono stati caratterizzati da politiche protezioniste estremamente aggressive. Ma le implicazioni vanno molto al di là degli aspetti commerciali. Trump utilizza i dazi come strumento di pressione contro paesi sia rivali sia alleati, al fine di ottenere benefici economici e geopolitici. Tale politica rappresenta un attacco mortale al multilateralismo, fondamento dell’economia internazionale dal dopoguerra a oggi.
La storia e l’economia insegnano che le barriere commerciali introdotte dai singoli paesi, con l’illusione di massimizzare il benessere nazionale, nel medio termine danneggiano tutti, compreso chi le introduce. E che le guerre commerciali possono aprire la strada a quelle militari. Il Smoot-Hawley Tariff Act, introdotto dagli Stati Uniti nel 1930, danneggiò fortemente l’economia mondiale compresa quella americana. Ne seguì un periodo di forte instabilità internazionale che culminò nella seconda guerra mondiale.
Al contrario, nel dopoguerra l’introduzione di regole internazionali per risolvere le dispute commerciali e la creazione di istituzioni internazionali per favorire la cooperazione internazionale
hanno sostenuto il libero commercio, alimentato una crescita economica senza precedenti, contribuito a contenere le tensioni geopolitiche e a ridurre il rischio di conflitti e guerre.
Oggi questi equilibri sembrano essere saltati e le prospettive per il futuro sono molto incerte. Nel breve termine una stabilizzazione è altamente improbabile. Per il medio si possono ipotizzare due possibili scenari.
Nel primo il protezionismo aggressivo di Trump continua, acuisce le tensioni internazionali e innesca ritorsioni che alimentano l’incertezza globale con effetti pervasivi e duraturi. A livello globale ciò significherebbe elevata frammentazione, forte riduzione dei legami commerciali e finanziari tra paesi, aumento della volatilità sui mercati e nelle relazioni internazionali. Con impatto negativo su crescita globale e rischio di crisi ricorrenti e sistemiche. Una tale politica si ritorcerebbe contro gli stessi Usa, con un mix di stagnazione e inflazione. E riducendo la fiducia nel dollaro e l’attrattività di Washington (e del suo debito pubblico) per gli investitori internazionali.
Nel secondo scenario, Trump potrebbe essere costretto a un approccio più pragmatico da pressioni interne ed esterne. Tra queste la reazione negativa dei mercati finanziari, le ritorsioni di alcuni paesi, l’insoddisfazione dei consumatori-elettori (colpiti dall’aumento dell’inflazione), e le preoccupazioni delle imprese americane (che, pur protette da dazi, sono danneggiate da interruzioni delle catene di fornitura e turbolenza dei mercati finanziari). Il protezionismo aggressivo lascerebbe spazio ad accordi bilaterali e il commercio internazionale si riconfigurerebbe attorno ad aree regionali e a nuove filiere d’imprese. Ciò aprirebbe la strada a un possibile riassetto del sistema economico mondiale basato sui nuovi equilibri tra paesi.
Il secondo scenario è più favorevole del primo, ma entrambi segnano la transizione da un approccio multilaterale basato su regole in gran parte condivise a uno «muscolare» in cui vige la «legge del più forte». Entrambi gli scenari lasciano meno spazio alla cooperazione internazionale, comportano costi elevati (sia in termini economici che di minor innovazione), aumentano il peso di interessi politici e geopolitici nelle scelte economiche. Ed entrambi richiedono una straordinaria capacità di adattamento da parte di paesi e imprese.