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Parma -

Lunedì 08 Settembre 2025


Artoni opera omnia, scrigno di emozioni

Artoni opera omnia, scrigno di emozioni
Tutte le sue poesie nel volume «Lo stesso dolore e altre poesie nel tempo».

Siamo nel 1951. In un quaderno della Rai curato da Leone Piccioni, Montale confessa: «la recente poesia italiana è minacciata di esaurimento, giacché ci sono parole, modi, cadenze recenti che non si potranno più usare per molto tempo». E parimenti afferma che in mancanza di un nuovo linguaggio poetico adottato dai giovani, il nostro Paese avrà bisogno «di molti anni di prosa e possibilmente di vera prosa, non di prosa poetica». Certificato così autorevolmente un tale cedimento, o frattura, o fraintendimento, chiamatelo come volete, era lecito aspettarsi una poesia veramente «nuova»? Non credo. Eppure, era il tempo in cui i poeti più giovani, Accrocca, Scotellaro, Gian Carlo Artoni, di cui ora esce per Diabasis l’opera omnia curata da Paolo Briganti con una nota di Luigi Alfieri, entravano in piena stagione espressiva.
Oggi, sia pure tenuto conto dell’amarezza espressa dall’autore di «Meriggiare», quella pattuglia ci sembra che non dovesse temere un processo «di esaurimento». Di trasformazione sì, invece. Ma a Parma, nel clima del dopoguerra, nel momento dell’estremo ripensamento, rinforzare l’entità dialogica della «Officina », o mutare prospettive, inseguire un altro futuro sull’esempio di Attilio Bertolucci inquieto autore di «Lettera da casa» e de «La capanna indiana» (’51), indebitarsi o debitarsi verso il Novecento - fiorentino, in particolare - la situazione come si presentava?
Le risposte vennero, un po’ timide, per la verità, ma vennero. Giorgio Cusatelli, Pier Luigi Bacchini, Giancarlo Conti si muovevano, leggevano, curiosavano. Ma più degli altri tentò Gian Carlo Artoni. Il suo dire poetico si mostrò - come più volte ci ha confermato autorevolmente Macrì - già sicuro allora. E tale ora lo ritroviamo, dopo tanti anni, in questo volume complessivo «Lo stesso dolore e altre poesie nel tempo» (1946-1966): volume che riappare come un profilo d’ombra mai scomparsa dall’orizzonte dei nostri pensieri e delle nostre letture, un volume rimasto miracolosamente (si può usare quest’aggettivo per la poesia?) intatto, anzi accresciuto nel tempo a guardar le date che sembrano tutte là, in pieno Novecento e che, invece, ci parlano ancora. Il volume, che raccoglie al modo di uno scrigno salvato dall’usura del tempo e dai tempi l’intera testimonianza di Artoni e la sua esperienza letteraria così preziosa anche oggi per comprendere il «secolo breve» o pur infinitamente tragico, rimane un esempio di «Come nasce una pianta, dolcemente / maturata nel morbido calore / del suolo e nella prima / foglia è già la dischiusa vampa serbata al seme lungo il corso dell’inverno».
Vampa, quindi, covata sotto la cenere durante anni che parevano attenti ad altro, quasi una voluta distrazione, un dirottamento preso a pretesto per alludere ad altro senza smentirci, mentre occasioni, contrasti e inviti dilatavano lo spazio umano e letterario della nostra poesia. Artoni, come scrive Briganti a più riprese, da «Lo stesso dolore» in poi - ma con l’avvertenza di un «prima» già estremamente limpido e concertato che si proietta verso i «frammenti di senso nella più generale ricerca d’un senso nella vita» - toccava e possedeva in pieno l’arte di trovarsi in quella provincia che custodisce l’infinita memoria del tutto, non solo, per raccontarla ma soprattutto per indicarne «la voce che chiama / dai miei anni passati, stanca voce / di naufrago cui basta qualche notte / calda d’amore per riavere un cuore / malinconico». Ecco la lezione che non cade nel tranello degli «ismi», cui Ungaretti insegna e protegge «come una creatura».
E mai esempio fu più fulminante e ardito. Poiché nella storia di Artoni - ora lo si vede bene - «il suo lavoro trova i valori più certi nei termini di una lunga autobiografia morale, di una austerità elaboratissima, ma per qualche aspetto un po’ estranea all’ora che batte. A proposito dei suoi versi si è parlato a ragione di un indefinito poetico di ascendenza indirettamente leopardiana e tassiana» - scriveva Marco Forti presentando la raccolta ne Lo Specchio mondadoriano del ‘63. E, del resto, il conto torna come possiamo osservare scorrendo i testi ripresi «La villa» ‘56 e da «Altre, altrove ed oltre» (’56-’66): toni che oggi son confortati dai «Tre scritti in prosa» pubblicati in Appendice, con quel «Parma non più Parma» del ‘75 nel ricordo ironico e lacerato, di Delfini e della città «senza amore», come la definì Paoletti anch’egli afflitto dai «dolori irrimediabili» della decadenza e dell’indifferenza. Che, però, la poesia ancora sconfigge, la poesia vera, «la certezza della tua compagnia», un conforto, un calore, un’orma profonda che questo libro intimamente ci suggerisce: anzi, ci impone. Per fortuna nostra

Lo stesso dolore e altre poesie nel tempo - Diabasis, pag. 232, A18,00

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