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Al 17 dicembre 2015 - 23:00
Lo so bene cosa pensano perché fino a pochi anni fa c’ero anch’io tra loro e li guardavo anch’io, quelli che non avevano una casa e un lavoro e mi dicevo: ma com’è che non ce l’hanno e come si fa a vivere senza averceli…».
Racconta la città vista con gli occhi di chi non ha più un tetto sopra la testa il monologo ideato e interpretato da Piergiorgio Gallicani “Una vita fuori posto”, nuova produzione del Teatro delle Briciole al debutto giovedì e venerdì alle 21 al Parco. Nato dal libro “Gente di strada. Disagio nello spazio pubblico” del sociologo Alessandro Bosi, edito da Battei nell’ambito della collana “Pensare la città” e promosso dalla Fondazione Mario Tommasini, il monologo mette in scena il tempo dilatato di un homeless negli spazi sempre meno pubblici di una città ostile in continua trasformazione.
Dal libro alla scena, come si è sviluppato questo progetto?
«Sono partito dalla lunga intervista a un senzatetto di Parma, che costituisce il corpus principale del libro di Bosi - racconta Gallicani, artista storico delle Briciole - Mi ha sconvolto perché racconta un’esperienza esistenziale fortissima, senza mai indulgere nell’autocommiserazione ma con molta lucidità, e perché emerge il ritratto di una città molto diversa da quella della nostra quotidianità. E’ stato abbastanza naturale trarne un monologo, grazie a Bosi che nell’intervistare questa persona - che ha scelto di restare rigorosamente anonima – si è posto in una modalità di ‘ascolto narrativo’ liberando una sorta di flusso di coscienza».
Che città emerge?
«Una città dove le porte d’accesso si aprono solo a chi ha le credenziali giuste, settorializzata e privatizzata ormai a tal punto che gli spazi pubblici non sono per niente pubblici ma dove il tempo non passa mai per chi non ha una casa dove tornare. Lo sguardo del senzatetto si rivolge anche al nostro affannarci e spostarci continuamente di qua e di là per comprare cose che occuperanno altro spazio, alle storture della “normalità”. C’è la paura del diverso come minaccia piuttosto che come possibilità d’incontro, soprattutto c’è una misera esistenziale che trova difficoltà di accesso alla dimensione dell’umano prima ancora che alle necessità biologiche primarie».
Come hanno reagito i ragazzi degli istituti superiori di Parma a cui lo spettacolo è stato presentato in questi giorni?
«Insieme a Bosi abbiamo trovato grande attenzione e sensibilità. I ragazzi sono molto coinvolti da un punto di vista emotivo, sentono vicino il tema della disponibilità di uno spazio urbano pubblico che possa creare aggregazione e sono toccati dalla riflessione su come possa venire a mancare la rete di protezione della famiglia».
A livello interpretativo come ha lavorato?
«Ho cercato di contenere l’emozione, di mettere da parte il pathos e di farmi semplicemente “veicolo” delle sue parole. L’unico elemento scenografico è una panchina con il bracciolo centrale ‘antibarbone’, un dissuasore simbolo di come la città si ingegni per trovare sempre nuove forme di esclusione».
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