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Al figlio del dottore piaceva giocare a scacchi e suonare la batteria: poi, un giorno, suo padre, per il tredicesimo compleanno, gli regalò una macchina fotografica, una Graflex. E' il momento che cambia tutto, perché se un segreto c'è, è proprio lì: dentro uno scatto di alcuni (non molti) anni dopo. Il giovane Stanley, che nasconde la Graflex nella borsa della spesa per non essere scambiato per un turista o un giornalista, va allo zoo. E si ferma davanti alla gabbia delle scimmie. Ma invece di rivolgere l'obiettivo verso gli animali fotografa la gente che li guarda, immortala le espressioni di quello strano pubblico davanti (o dietro...?) le sbarre. Ribalta cioè completamente la prospettiva del tutto: e si immedesima nel punto di vista della scimmia, che non è più oggetto dell'inquadratura ma soggetto «pensante», fondamento, della stessa. Ecco, per quanto noi pensiamo di vederli e ci illudiamo di poterli analizzare, persino sezionare, i film di Kubrick ci guarderanno sempre. Forse giudicandoci ancora prima che noi facciamo la stessa cosa con loro.
Anche perché i capolavori di questo che possiamo definire uno dei più grandi (e più influenti) geni del Novecento vanno al di là dello spettacolo cinematografico in quanto tale così come anche dell'opera d'arte: ma sono - tutti, nessuno escluso - esperienze, saggi visivi (e visionari), riflessioni (filosofiche, sociali, politiche) sulla natura umana. Anche quando a essere «umano» è un computer che scivola nell'oblio cantando («ho imparato una filastrocca, la volete sentire?») «giro girotondo»...
Di lui si è detto tutto: che era maniacale, perfezionista fino all'estremo, cortese eppure «impossibile». Ken Adam, il leggendario scenografo de «Il dottor Stranamore» e «Barry Lindon» (ma anche di alcuni dei migliori 007), quando lavorava con Kubrick andava avanti a tranquillanti mentre Arthur C. Clarke, l'autore di «2001 Odissea nello spazio», dopo ogni seduta di sceneggiatura con il regista newyorchese doveva andare a stendersi perché gli girava la testa... Ma è lo stesso uomo che Orson Wells definirà, in tempi non sospetti, «un gigante». Di fatto Kubrick è - per molti versi - ancora un mistero: imperscrutabile e affascinante quanto il monolite di «2001». Ora, ad avvicinarsi, col dovuto rispetto che si deve al mito, a quell'universo multiforme e incandescente è il cinema D'Azeglio che da giovedì ripropone con la rassegna (a ingresso gratuito) «Visioni dell'assoluto» 11 dei suoi 13 film (tutti tranne i primi due), di cui sei in versione originale sottotitolata. Un'occasione per riscoprire la potenza e l'attualità del cinema di Kubrick sul grande schermo, là dove è stato concepito per stare.
L'autore americano fonde le sue passioni adolescenziali nella ragione della sua vita, il cinema: dagli scacchi prende il rigore, dal jazz il senso del ritmo, dalla fotografia un gusto, già maturo e innovativo, dell'inquadratura. Si tiene lontano dal sistema, vive con la famiglia in un sereno isolamento, veste «come un venditore di palloncini (parola della moglie). E' un meraviglioso autodidatta: quello che sa non glielo ha insegnato nessuno. Non ha maestri né allievi, ma ama anche il cinema degli altri. Quando nel '63 lo invitano a stilare la sua personale top ten dei migliori film di tutti i tempi, non ha dubbi: e al primo posto mette «I vitelloni» di Fellini.
Il suo rimanere fuori dal coro, l'insopprimibile desiderio di autonomia (e controllo assoluto sulla creazione di un film) lo rende mal sopportato dall'establishment che fatica a perdonargli il suo enorme successo: così, seppure venga candidato 4 volte all'Oscar non lo vince (proprio come Chaplin, Hitchcock e molti altri grandissimi) mai. Poco male: il suo talento non ha bisogno di conferme. Kubrick lo sa e nel '99, poco prima di morire, chiude il cerchio: in «Eyes wide shut» fa passare Tom Cruise davanti a un'edicola, identica a quella della prima foto che gli venne pubblicata. E' il '45, Stanley ha appena 17 anni: mentre sta andando a scuola fotografa un giornalaio affranto circondato dai titoli dei quotidiani che annunciano la morte di Roosevelt. Vende lo scatto a «Look» per 25 dollari, che lo assume. Solo molto più tardi racconterà che per convincere l'edicolante a tirare fuori un'espressione triste impiegò tutta la sua pazienza. Istruendolo come fosse un attore. In fondo, stava già facendo cinema.
E non sarò certo io a dire che l'uomo che sapeva tutto non ne fosse già consapevole.
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