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Che la nera signora gli avrebbe riservato un trattamento speciale era facile da immaginare. Anche solo per questioni di «contratto»: tra i tanti collaboratori che la storia le ha messo a disposizione nei millenni, Adolf Hitler è di certo stato uno dei più solerti. Il Führer non poteva certo uscire di scena come uno qualsiasi. Era destino che anche da defunto agitasse una lunga serie di «come» e di macroscopici «se». Coinvolto come cadavere o come fantasma nella Guerra fredda, dopo aver fatto scoppiare quella più rovente dell’età contemporanea. E ancora oggi, caduto da quel dì il Muro, suo lascito indiretto, spettro che alimenta dubbi e discussioni. Dopo essersene occupato per decenni, Mario Bussoni torna sull’argomento con «Hitler vivo o morto» (Mattioli editore), che verrà presentato oggi alle 18 alla Feltrinelli di via Farini; 262 pagine che affrontano la vicenda sotto i molteplici aspetti - storico, anatomopatologico, politico e complottistico -, affrontando le innumerevoli ipotesi che si sono sviluppate dal 1945.
Il libro è il resoconto di un lungo viaggio compiuto spesso contro la corrente delle «verità» date troppo facilmente per scontate. A cominciare da quella secondo la quale il Führer si uccise sparandosi in bocca con una pistola. A sostenerla fu Hugh Trevor-Roper, professore di Oxford, riverita autorità a livello mondiale nel campo della Storia moderna. Talmente riverita da potersi permettere di arrivare alla conclusione senza nemmeno ascoltare i testimoni diretti del bunker dell’orrore che nel frattempo erano ancora prigionieri dei sovietici conquistatori di Berlino. Bussoni, i documenti con le prime ammissioni da parte del Cremlino sul ritrovamento e sull’autopsia del «presunto» cadavere di Hitler, li ebbe a disposizione alla fine degli anni ’70. Da essi partirono le ricerche che lo portarono a realizzare «Andò così», il servizio che sarebbe stato pubblicato nel 1980 dal mensile Historia, in due puntate, che osava confutare la tesi di Trevor-Roper.
Nella sua indagine, lo storico parmigiano coinvolse anche Pietro Valli, primario dell’istituto di Medicina legale dell’Università di Parma. Fu una sorta di autopsia a distanza: nel tempo e nello spazio. Emerse che il capo del Terzo Reich, per la ferita trovata sulla parte mancina del cranio, l’unica visibile (il cadavere era piegato in avanti e spostato sulla destra) e per le macchie di sangue trovate sul divano, era stato colpito da una pallottola alla tempia sinistra. La storiografia ufficiale insorse. Salvo poi fare marcia indietro quando, nel 1983, il guru oxfordiano perse ogni credibilità abboccando a un falso clamoroso. Fu lui, infatti a prendere per autentici i «Diari di Hitler». Un falso clamoroso, una figuraccia planetaria. Niente male per una spia dell'MI5 e dell'MI6 (ruolo non proprio in sintonia con quello di ricercatore di verità storiche).
Ma Bussoni e Valli, partendo anche dall'analisi delle condizioni cliniche del dittatore si spinsero oltre: il Führer, minato dal Parkinson, non era in grado di impugnare una pistola con la sinistra (ma anche la destra aveva problemi). Inoltre, i testimoni avevano riferito di un foro d'entrata netto, privo dell'orlo d'ustione provocato dai colpi a bruciapelo. Con ogni probabilità, Hitler non si era sparato. Qualcuno lo aveva suicidato. E quel qualcuno non poteva che essere Eva Braun, prima di togliersi a sua volta la vita ingerendo una capsula di cianuro. Prove conclusive non ce ne sono, ma sembra questa l'ipotesi più credibile. Si è costretti a procedere in un cammino a ostacoli, tra le macerie della storia, in una realtà andata in frammenti con la caduta degli dei.
E intanto si rivivono gli agguati e i tradimenti dell'ultima battaglia, nel fumo della capitale in fiamme e soprattutto in quello del rogo appiccato dai fedelissimi del dittatore, per il maldestro funerale nibelungico del (presunto) Führer con la consorte. Non solo Berlino: la Germania intera e le regioni alpine erano un'immensa zona d'ombra nel maggio del 1945 e anche dopo. Firmato l'armistizio, la storia non s'è preso alcuna pausa, diversamente da quanto si è abituati a credere. Ha solo agito in modo più silenzioso e subdolo: un'altra guerra si profilava all'orizzonte (che sarebbe rimasta fredda nessuno poteva prevederlo), e anche gli ex nemici nazisti potevano essere arruolati sotto nuove divise. Niente era più certo, in un intreccio di morti presunte, di uccisioni di sosia (non solo del dittatore) e sparizioni sospette: sullo sfondo, l'operazione Bernhard (sterline false), le imprese di Otto Skorzeny (il liberatore di Mussolini al Gran Sasso), le vie di fuga aperte dal Vaticano verso Medio Oriente e Sudamerica. Non a caso, uno dei protagonisti di questo periodo fu un tale Ian Fleming, padre del futuro James Bond. Gli intrecci furono proprio da spy story: e Bussoni, senza mai abbandonare l'attenzione quasi maniacale per i documenti e le testimonianze, li fa rivivere. Per tornare al destino dell'uomo che scatenò l'inferno, senza sposare alcuna tesi. Anzi, l'assenza del punto interrogativo nel titolo evidenzia ancora di più la domanda centrale: Hitler vivo o morto? Possibilità di fuga, il dittatore ne aveva: anche all'ultimo minuto, a bordo degli aerei ultrasegreti del Kg 200 della Luftwaffe o degli U-Boote come l'U 530 e l'U 977 che continuarono a fare la spola tra Vecchio continente e Argentina ben oltre la fine della guerra. L'autore rievoca l'Operazione Terra del Fuoco, il trasferimento di ingenti beni dal Terzo Reich al Sudamerica, la fantomatica (e poco probabile) Base 211 in Antartide. Allora, l'uomo non era ancora andato sulla Luna. Altrimenti, un seme di mistero sarebbe stato piantato anche lì.
Hitler vivo o morto
di Mario Bussoni
Mattioli, pag. 262, euro 18,00
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