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Resoconto di vita quotidiana nei pressi della capitale statunitense. Nonostante sia la capitale degli Stati Uniti d’America, Washington non ha il fascino iconico di città come New York, San Francisco, Seattle o New Orleans. Non ne ha la personalità; non ha una sua anima. Non ci sono i grattacieli che caratterizzano tutte le metropoli di quelle parti. Il ritmo di vita è sommesso, molto ordinato, paziente in ogni istante e in ogni circostanza, nessuno se la prende o pare prendersela. C”è rispetto assoluto per le ricorrenze nazionali, la cortesia da buoni e illuminati vicini regna ovunque, si sa o si presume che tutti credano alle stesse cose e negli stessi valori. Una collettività indistinta al suo interno. Ma – proprio per la mancanza di una specifica atmosfera – è il luogo della concretezza americana: lobby industriali e finanziarie, trasversali ai due partiti tradizionali, sono in perenne e sotterranea attività; le diplomazie di tutto il globo si confrontano con il potere di Casa Bianca e Congresso. Soprattutto, la vita sociale e gli stessi rapporti fra le persone ne risultano semplificati ed evidenti. E – per chi come l’autrice arriva dall’Europa con tutte le aspettative, i sogni e i falsi miti sugli States – la negoziazione quotidiana impatta con l’inflessibilità, le rudezze mentali, l’irresponsabilità, le difficoltà ad accettare chi è diverso. Una visione da Padri Pellegrini tuttora alla base di un Paese che pensiamo libero per definizione. Francesca Andreini ha vissuto un lungo periodo a Washington con la sua famiglia, partecipando attivamente alla vita culturale e collettiva della capitale federale. Compiendo nei primi anni un percorso intenso di scoperte e di personale trasformazione. Estratto Mi chiedo come riescano a orientarsi, gli americani. E come trovino l’ottimismo, la forza d’animo per procacciarsi l’assistenza medica nell’oscura foresta di affari privati che è il loro sistema. In confronto a loro io vengo da un orticello. Un luogo piccolo, recintato e protetto su cui mi ha depositato sopra la cicogna quando sono nata. E nel quale poi sono cresciuta, sono diventata adulta e ho fatto la mia strada. Un orticello dove a volte si finisce nelle buche o nelle zone buie e dove spesso si inciampa nell’intreccio di radici. Però sapendo che sta lì per noi, e che nessuno potrà mai cacciarci. A volte lo malediciamo, il nostro orticello, e spesso ne parliamo male, o addirittura lo odiamo. E però, sempre e comunque, lo diamo per scontato. Qui, invece… «Che assicurazione ha?» dice spiccia la segretaria dello studio medico. E dalla mia risposta dipende la qualità e quantità di cure che riceverò. Dipende il futuro della mia vita. Esito un momento, mentre porgo il cartoncino con i dati della mia assicurazione. E mentre aspetto che la signorina lo fotocopi e lo inserisca nel sistema mi metto a immaginare, parto. Ho appena dato il cartoncino di un’assicurazione sanitaria che copre solo poche spese perché il mio datore di lavoro attuale non è disposto a fornirmene una migliore. Sono un’americana media, sto ancora ripagando il prestito della banca che mi ha permesso di studiare all’Università. E ho le rate del mutuo, quelle per l’auto… Sarebbe meglio, in questo momento, per me, essere una nullatenente o una madre single con quattro figli a carico, e senza lavoro. Che quelle se la cavano con un’assistenza di base, gratuita. Niente di raffinato, certo, ma già qualcosa. Invece io sono un’impiegata con uno stipendio fisso, quindi se mi ammalo devo pagare, e caro. E sono comunque messa meglio di mio marito, a cui il datore di lavoro non ha fornito nessuna copertura. Ho utilizzato tutti i risparmi che avevamo messo da parte per gli studi dei figli. La mia malattia rischia di mandarci in rovina. È stato inutile rinegoziare il contratto con la compagnia di assicurazioni, andare a scovare cavilli, fare appello al programma di assistenza gratuita della contea, chiedere aiuto a un gruppo di supporto, affidare il caso a un consulente volontario. Niente è bastato, le cure sono troppo care. Sono in ritardo con le rate dell’auto, e la casa rischio di perderla, se continuo così. Con cosa pagherò d’ora in poi? E se non pago, semplicemente, muoio. Potrei convincere la mia biscugina a giocare i risparmi ai cavalli… «Grazie, lo può riprendere adesso.» mi sveglia la segretaria, porgendomi il cartoncino. Io lo riprendo e sospiro di sollievo: ho una buona assicurazione sanitaria, anche se la mia situazione si rivelasse critica potrò lasciare in pace la biscugina e non cadrò in rovina. Ringrazio con eccessivo entusiasmo la segretaria, che mi guarda di sbieco e non ricambia, e mi siedo ad aspettare il mio turno. Prendo in mano una delle solite riviste su come stare in forma e belli e magri, così da evitare di dover finire dentro uno studio medico a farsi visitare, spendere soldi e rovinarsi. Mai come qui in America ho capito il senso della prevenzione. Che, poi, anche per chi ha una buona assicurazione sanitaria i giochi non sono del tutto semplici. «A quelli con una copertura discreta fanno fare un sacco di analisi in più.» mi ha detto più di una voce. E mentre volto le pagine a colori cercando di ignorare quella piccola vibrazione di tensione che aleggia negli studi medici, e il motivo che mi ha portato qui, invece di distrarmi continuo a rievocare casi letti in giro o voci di amici che mi hanno messo in guardia. «Chi può pagare i medici è una gallina dalle uova d’oro, da queste parti!» «Qui non si guarisce mai, ci si cura a vita!».
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