GUSTO

Pesche su pesche: il frutto estivo per eccellenza, in tutte le sue varietà

Sarebbe con la «e» aperta, ma non state troppo a sottilizzare tanto, lo dicono i linguisti, importa capirsi e comunicare (la lingua cambia nel tempo, le norme seguono) e nessun fruttivendolo, quando chiederete qualche pesca, di fronte a una pronuncia con la «e» chiusa vi chiederà se quello è il vostro sport preferito. Ma le parole non sono mai totalmente innocenti, «sono pietre» un filosofo dixit, e quella «e» aperta già predispone bocca e sensi a una meraviglia del gusto, a una bontà delicata, alla succosa fragranza di un frutto fortunato.
Coltello e forchetta per gli educati al galateo della tavola, tuttavia niente vale il morso diretto e attento a non disperderne il succo che inonda il palato, mentre la struttura delicata della polpa cede tutto il suo sapore -e pazienza se il gesto non sarà così elegante e mani e bocca resteranno poi deliziosamente appiccicose. Attenti al nocciolo però: duro e rugoso custodisce la mandorla amara, tossica di acido cianidrico. E allora si potrebbe disquisire sulla doppiezza ambigua della pesca, su una sua nascosta e pericolosa slealtà: velenosa nel nocciolo legnoso, seducente nella polpa fragrante. Ci si guardi da quei rischi nascosti, ci si lasci conquistare da quanto attorno a quelle insidie la pesca ha costruito, senza dimenticare che, fin dal momento del Paradiso terrestre, il frutto ha una linea d’ombra, un carattere oscuro che nasconde e che giustifica il suo diventare anche simbolo del peccato. Sarà allora un caso che nella lingua francese la parola «pesca» si scriva come la parola «peccato», a parte accenti e conseguente diversa pronuncia?
Sempre nella patria dei nostri smaliziati cugini il loro Re più famoso era ghiotto di quella pesca bianca e rossa chiamata «seno di Venere» la cui pelle vellutata e la forma tondeggiante e allusiva gli sembravano cariche di non innocenti promesse. E come dimenticare che tuttora la pesca più famosa è quella che Auguste Escoffier, cuoco supremo, ammaliato e rapito dall’avvenente formosità, e forse anche dalla bravura, preparò per la soprano Nellie Melba, che cantava nel «Lohengrin» di Richard Wagner? La ricetta, da allora immortale, prevedeva che un cigno, scolpito nel ghiaccio e adagiato su un gelato alla crema, portasse tra le ali una pesca matura ricoperta da una salsa di lamponi. Nei suoi «Souvenirs inédits», Escoffier annotò che «l’effetto fu sorprendente e Mme Melba si mostrò sensibile alla mia attenzione» -e oltre non andiamo. Certo il genio di Escoffier e quella sua creazione furono formidabili ed ebbero la loro parte, ma alla fine non fecero che portare prepotentemente alla luce il latente potere afrodisiaco, vero o immaginario fate voi, di quel frutto.

In Cina, da dove l’albero proviene, era simbolo, di immortalità, di vita, d’amore e da noi, e più prosaicamente, chi non ha mai cantato «fiori rosa, fiori di pesco, c’eri tu», cullandosi nel ricordo d’un amore magari passato? Chi non s’è sorpreso e rallegrato di fronte a quei fiori sbocciati d’improvviso nel grigio invernale dei campi, precoce presagio di primavera? Certo il frutto matura più tardi, lentamente e pienamente solo in estate, per cui è bene lasciare perdere le varietà precoci e men che mai le primizie invernali provenienti da altri mondi: sarà forse fatta felice la vista, ma il piacere del palato resterà insoddisfatto, resterà appunto, come ammonisce la saggezza popolare, «lontan da sner cme i persogh». Il momento è ora, è questo il tempo della pesca con la pelle vellutata e la polpa bianca o gialla e di quella dalla pelle liscia, figlia di una fortunata mutazione naturale, la pesca-noce o nettarina, che regala consistenza soda, polpa croccante e, secondo maturazione, più morbida, sugosa, fondente: se rinfrescate qualche tempo in acqua e ghiaccio diventano irresistibili.