Editoriale

Dazi sulle auto elettriche cinesi: tutti gli errori dell'Europa

Aldo Tagliaferro

C’è una data “silenziosa” che nel 2001 segnò le sorti del mondo per gli anni a seguire ben più di quella esplosiva dell’11 settembre: tre mesi dopo, l’11 dicembre, la Cina entrava nel Wto, l’organizzazione mondiale del commercio. Dopo anni di trattative l’Occidente spalancava le porte al Dragone scommettendo che le aperture e le riforme iniziate da Pechino avrebbero legittimato dopo 15 anni lo status di “economia di mercato”. Non è stato così, tanto che Usa e Ue nel 2015 si rifiutarono di riconoscere quella cinese una “market economy”. La lista dei peccati e delle mancate promesse di Pechino è lunghissima, basterà citare i sussidi pubblici, la disparità di trattamento tra imprese locali e straniere, le violazioni in materia di proprietà intellettuale, gli standard ecologici poco trasparenti, il mercato dell’It non aperto agli stranieri fino alla produzione in eccesso di acciaio sovvenzionato (per tacere dei diritti umani troppo spesso violati).
Doveva essere un accordo win-win, di fatto ha vinto solo la Cina che in vent’anni ha aumentato le esportazioni dell’870% diventando la fabbrica a basso costo per tutto il mondo mentre l’Occidente si è accorto solo da qualche anno che le dinamiche del commercio mondiale non sono più in grado di garantire scambi equi.

Siamo partiti da lontano, ma non si può non inquadrare su questo sfondo la guerra dei dazi sui veicoli elettrici cinesi che oggi vede impegnate America ed Europa. Bruxelles giovedì scorso ha imposto i nuovi dazi compresi tra il 17,4 e il 37,6% che si sommano al 10% già in vigore per contrastare l’automotive cinese che beneficia di sussidi ingiusti e di prezzi tenuti artificialmente bassi.
Poca roba rispetto al 100% già imposto da Biden, ma quanto basta per gettare ulteriore benzina sul fuoco di un inquietante braccio di ferro geopolitico visto che da una decina d’anni erigere muri, politici prima ancora che commerciali, è tornato di gran moda.
Sull’automotive, lo sappiamo bene, si sta giocando una delle partite decisive della transizione ecologica e l’ultima decisione di Bruxelles non solo rischia di produrre conseguenze negative a fronte di ben pochi vantaggi, ma denota per l’ennesima volta una totale mancanza di visione della politica industriale continentale.
Perché prima l’Europa ha deciso che il futuro - peraltro in tempi eccessivamente brevi: dal 2035 - sarebbe stato solo elettrico in barba al principio della neutralità tecnologica, quindi ha abdicato consegnando il proprio primato tecnologico e industriale sul motore endotermico nelle mani dei cinesi, partiti in anticipo sull’elettrico e in grado di controllare le materie prime necessarie per la costruzione delle batterie.
Ma torniamo ai dazi. I punti critici sono almeno cinque. In primo luogo tutte le battaglie protezioniste degli ultimi anni sul fronte commerciale hanno dimostrato che i dazi non sono stati efficaci né hanno prodotto particolari benefici.
Un recente studio di Thorsten Martin (Bocconi) e Clemens Otto (Singapore University) sulle aziende americane ha dimostrato in particolare che riducendo i dazi sulle importazioni aumentano gli investimenti delle industrie a valle, cosa che vale soprattutto quando i dazi colpiscono materie prime e intermedie. Due: dazi chiamano dazi.
E infatti Pechino si sta già muovendo per vendicarsi e potrebbero essere dolori per diversi settori strategici europei: moda, agroalimentare e farmaceutica rischiano severe penalizzazioni dalle barriere tariffarie in ingresso. E siccome il circolo è particolarmente vizioso, l’Ue starebbe a sua volta lavorando a un progetto di tassazione di merci low cost provenienti dalla Cina...
Tre: nello specifico, il vantaggio competitivo dei costruttori cinesi sui modelli elettrici in termini di costi è tale che – nonostante le ovvie rimostranze di Pechino – il rincaro non sarà sufficiente a mettere fuori mercato le auto a batteria del Far East (con un dazio del 17% il rincaro di un modello da 30mila euro è intorno ai 5mila euro) e l’utilizzo degli incentivi potrebbe finire per compensare l’effetto-dazi.
Quattro: considerato l’andamento asfittico del mercato dell’elettrico in Europa i dazi rischiano solo di comprimere ulteriormente la nicchia a batterie anziché favorire i costruttori locali che nei segmenti più appetibili sono ancora indietro. Sarebbe un tragico contrappasso per l’Unione europea che scommette su un mercato “full electric” nell’arco di undici anni. Un ultimo effetto negativo, addirittura autolesionistico: i dazi colpiscono pesantemente anche molti modelli elettrici di costruttori occidentali che producono in Cina, da Tesla a colossi come Volkswagen e Bmw (i costruttori tedeschi generano in Cina circa un terzo del loro fatturato).
Ma, peggio ancora, sta emergendo drammaticamente l’ennesima spaccatura all’interno della Ue, perché ovviamente la Germania è fortemente contraria ai dazi mentre Paesi come Francia e Italia (che tutelano i loro interessi avendo meno peso in Cina) sono largamente favorevoli. Pare poco saggio presentarsi di fronte a un unico interlocutore – Xi Jinping – con posizioni diverse: si è sconfitti in partenza. L’unica speranza, dal momento che ci sono quattro mesi di tempo per rendere permanenti i dazi (per fermarli servirà una maggioranza qualificata di 15 Paesi che rappresentino il 65% della popolazione), è che Bruxelles stia solo mostrando i muscoli nel disperato tentativo di compensare i vantaggi competitivi cinesi e trovi un’intesa entro l’autunno, magari a partire proprio dalla missione di questi giorni del ministro Adolfo Urso.
Ma a rendere ancora più amara la questione c’è la sensazione che al di là dei dazi sui veicoli elettrici l’Europa non si renda conto che l’avanzata della Cina (già oggi di gran lunga il primo produttore mondiale), difficilmente si potrà fermare. Un recente rapporto di AlixPartners prevede un dominio mondiale di Pechino nel 2030 con una quota del 33% e un raddoppio in Europa dal 6 al 12%. I costruttori cinesi non sono soltanto più avanti sullo sviluppo dell’elettrico per le ragioni già elencate, ma hanno ormai prodotti molto competitivi a prezzi ragionevoli, tempi di sviluppo rapidi, forti integrazioni verticali nella filiera e soprattutto capacità di nuove localizzazioni. Tanto che le notizie sui dazi non hanno indebolito i titoli del settore. Colossi del calibro di Chery e Byd godono di spalle finanziarie forti - oltre agli appoggi “politici” di Pechino - e sono già sbarcati in Europa, anzi sono già pronti ad ampliare stabilimenti e produzione, aggirando facilmente i dazi. E gli investimenti diretti esteri, si sa, fanno gola a tutti, per questo in tanti corteggiano le Case cinesi, a partire dall’Italia che per stimolare Stellantis a produrre di più nel Belpaese sta flirtando anche in questi giorni con Pechino.
Ma la concorrenza tra i 27 è spietata e torniamo al vulnsus delle divisioni continentali: ci sono realtà come Spagna, Ungheria o Slovacchia che offrono agevolazioni e condizioni molto vantaggiose. E l’Italia potrebbe rischiare di trovarsi con il cerino in mano.