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Generazione bit. Brividi d’autunno all’insegna di grandi ritorni
SILENT HILL F (Konami, per Pc, Ps5 e Xbox Series)
Nello stratificato sovrapporsi di riferimenti e suggestioni della serie Silent Hill, l’horror giapponese è stato dall’inizio una delle componenti dell’inquietante saga, nonostante si avvertissero forse come preponderanti le atmosfere esplicitamente ispirate alla cinematografia di David Lynch o ai libri di Stephen King, sotto la fitta foschia della fittizia cittadina del Maine, fin qui costante ambientazione del videogame. Dopo il successo del remake di Silent Hill 2, atteso al varco dai fan, trattandosi di un cult considerato tra i videogame migliori in assoluto e il cui rifacimento a opera di Bloober Team ha in effetti ottenuto plausi entusiastici, ecco arrivare un episodio nuovo di zecca, Silent Hill f, che stavolta abbandona gli States per trasferirsi direttamente nel Paese del Sol Levante e sviluppare ogni aspetto attorno al concetto tipicamente nipponico di un orrore che coesiste con la bellezza, il cui apice di splendore e perfezione può preludere all’insinuarsi proprio del buio più oscuro e inquietante. Anche in Giappone è rimasta la nebbia, calata all’improvviso su un villaggio maledetto, dove si aggira senza pace l’adolescente Hinako Shimizu. La divisa alla marinara ci dice che è una studentessa, costretta ad affrontare da sola mostri da incubo nel periodo in cui deve prendere una decisione fondamentale per il suo futuro di solito fonte di gioia, ma che in questo caso avvolto da foschi presagi di morte e disperazione. Hinako potrà scegliere liberamente o sarà obbligata a piegarsi alle pressioni esterne, che siano le richieste degli adulti o consuetudini sociali? Se nel 1999 con il debutto di Silent Hill il genere dei survival aveva assunto una profondità inedita coinvolgendo appunto la psicologia del protagonista, in una dimensione di ambiguità tra fantasmi della mente, traumi personali, cupi sogni e pericoli reali, con Silent Hill f il discorso sembra estendersi a un’intera nazione. Siamo negli anni Sessanta, decennio appositamente selezionato dallo sceneggiatore Ryukishi07 - noto autore di visual novel horror come Higurashi: When They Cry - perché ricco di contrasti tra innovazione e tradizione. Nel periodo Showa, dopo la seconda guerra mondiale e il cementarsi dell’alleanza con gli Stati Uniti, si erano imposti leggi, usi e costumi da Oltreoceano, ma coesistevano ancora con retaggi ancestrali, in una dilaniante dialettica che scavava solchi e provocava ferite irrisolte, mentre l’economia avanzava con velocità sorprendente, lasciandosi alle spalle il peso devastante delle macerie belliche. Conosciamo la famiglia problematica e gli amici di Hinako. Attorno a lei si aggira inoltre una strana figura che porta una maschera da volpe, il mitico animale chiamato kitsune dotato di poteri soprannaturali e della capacità di mutare il suo aspetto, ingannando gli interlocutori. Il Giappone è presente dunque nelle sue leggende, nei riti, nelle architetture dei torii, i tipici portali, e dei templi, negli elementi naturali, come le distese di gigli uragano, dal caratteristico colore rosso, che riescono a rifiorire dopo piogge rovinose e annunciano l’autunno, associati ai cimiteri e all’omaggio ai defunti. Anche nelle creature terrificanti che perseguitano la giovane, disegnate dall’artista Kera, si possono riscontrare ascendenze nel folclore dell’Oriente. La produzione ricorda in generale quanto sia vivace la scena videoludica in Asia, dal Giappone dell’ammiraglia Konami a Taiwan, dove nel 2017 è nata la software house NeoBards, che si è occupata della realizzazione di Silent Hill f e che ha il suo quartier generale a Hong Kong e una sede sussidiaria a Suzhou nella Cina continentale. NeoBards vanta diverse collaborazioni con le case nipponiche, avendo lavorato, tra gli altri, con Capcom a Devil May Cry HD Collection, Onimusha: Warlords Remaster, Resident Evil Origins Collection, i remake di Resident Evil 2 e 3. Era dal 2012 che non uscivano capitoli inediti principali di Silent Hill. Il ritorno in grande spolvero grazie a Silent Hill f avviene nel segno di un revival più profondo, che non teme di saggiare altre strade, ricoprendo con la propria sensibilità ciò che Silent Hill rappresenta e ha rappresentato. Tra i compositori si ritrova Akira Yamaoka, che ha firmato le colonne sonore di Silent Hill, Silent Hill 2, Silent Hill 3, Silent Hill 4 e alcuni titoli successivi, ma ci sono anche brani di Kensuke Inage (Dynasty Warriors, Samurai Warriors), nonché di dai e xaki, storici collaboratori del collettivo indie 07th Expansion fondato da Ryukishi07.
ATELIER RESLERIANA: THE RED ALCHEMIST & THE WHITE GUARDIAN (Koei Tecmo, per Pc, Ps5 e Switch)
Un titolo, Atelier Resleriana: The Red Alchemist & The White Guardian, che segna una nuova ripartenza per l’iconica serie Atelier di Gust: in quasi trent’anni ha inaugurato diversi cicli, tenuti insieme dal filo conduttore comune del laboratorio di alchimia, ma ciascuno con propri protagonisti e trame, oltre ai vari cambiamenti introdotti via via nel gameplay. Lo scorso marzo Atelier Yumia: The Alchemist of Memories & the Envisioned Land aveva puntato sull’esplorazione open-field e tematiche piuttosto cupe. Con Atelier Resleriana: The Red Alchemist & The White Guardian, frutto della collaborazione di Team Ninja con Gust, si torna invece alla tradizione di un gioco umoristico e gioioso, nel quale fin dagli esordi portare a termine le normali attività quotidiane era fonte di appagamento. Alla guida della squadra di lavoro Yasunori Sakuta, già coinvolto nella realizzazione del picchiaduro Dead or Alive. Resleriana si configura invece come un gioco di ruolo, dove si segue la crescita di giovani nella fase fondamentale di passaggio dall’adolescenza all’età adulta. Rispetto alla canonica protagonista femminile, stavolta i personaggi principali sono due: la vivace, ingenua Rias Eidreise e il riflessivo, serio Slade Clauslyter. Nella serie Atelier era già accaduto di avere due protagonisti, per esempio in Atelier Escha & Logy: Alchemists of the Dusk Sky e in Atelier Iris 2: The Azoth of Destiny. Nel rispetto del passato, anche in Resleriana l’arte dell’alchimia resta comunque una competenza tutta al femminile. Se l’universo è condiviso con Atelier Resleriana: Forgotten Alchemy & Polar Night Liberator, uscito nel 2023 per il mobile e Pc, la storia scritta da Takahiro (noto per i testi dell’anime Yuna Yuki e del manga Akame ga Kill!), sotto la supervisione di Shinichi Yoshike (dal 1997 impegnato nella serie Atelier), è invece originale, recuperando comunque alcuni aspetti di titoli di successo, come il sistema di sintesi degli oggetti di Atelier Secret e i combattimenti a turni del tipo visto in Atelier Sophie 2: The Alchemist of the Mysterious Dream. Dietro le avventure di Rias e Slade c’è il mistero della città dei loro antenati, Hallfein, un paradiso di tranquillità, economicamente prospero, trasformatosi improvvisamente nel teatro di oscuri fenomeni e della sparizione di molti dei suoi abitanti, tanto da diventare un territorio proibito e inaccessibile. Col passare del tempo e il sollevarsi a poco a poco delle restrizioni, vengono lanciati piani per restaurare e far rivivere la comunità. I due ragazzi ne approfittano per rientrare e chiudere i conti con pagine irrisolte del loro passato. Rias vuole riaprire il negozio del nonno e capire cosa sia successo a Hallfein. Slade, che aiuta Rias a valorizzare le doti alchemiche che la ragazza neppure sapeva di avere, ha impresse nella mente le ultime volontà del padre di cui ignora l’esatto significato. Possiede una chiave, il Geist Core, per spalancare varchi dimensionali, che immettono in regioni da esplorare, alternando liberamente i nostri due alter ego digitali in base alle necessità. Girando ci si imbatte in nemici da combattere (si possono organizzare squadre fino a sei guerrieri, di cui tre nella retroguardia per sostituire velocemente i colleghi feriti in prima linea) per ottenere ricompense o fate generose in benedizioni, ma anche negli ingredienti da combinare nelle ricette per creare nuovi oggetti o potenziare quelli esistenti. Gli articoli poi venduti nel negozio d Rias consentono di investire quanto guadagnato nei restauri di Hallfein e di scoprirne il passato, attirando visitatori che affideranno ulteriori incarichi. I fan della saga avranno la sorpresa di incontrare Ryza, Klaudia e altri personaggi della trilogia di Atelier Ryza.
DYING LIGHT: THE BEAST (Techland, per Pc, Ps5 e Xbox Series)
Il contributo della Polonia al medium è di quelli che hanno saputo andare dritti al cuore degli appassionati e cambiare le coordinate del digital entertainment, facendo entrare di diritto alcuni studi nell’olimpo dei videogame. Oggi chi non conosce Cd Projekt, gli autori dei kolossal The Witcher e Cyberpunk 2077? Oppure Bloober Team, maestri degli horror che, dopo aver resuscitato Silent Hill, in queste settimane hanno conquistato i fan del genere con Cronos: The New Dawn, sullo sfondo di una Cracovia alternativa? E ancora People Can Fly, specialisti dei first-person shooter, da Painkiller a Bulletstorm? All’inizio però c’è stata Techland, che ha aperto un po’ il sentiero anche a tutti gli altri. Suoi i primi successi in grado di accendere i riflettori sul Made in Poland: Chrome e specialmente i Call of Juarez, con tanto di motore grafico in-house rimasto un marchio di fabbrica. La consacrazione di Techland è arrivata insieme agli zombi: Dead Island prima, Dying Light poi. Adesso quella di Dying Light è diventata una saga a tutti gli effetti con l’uscita di Dying Light: The Beast, il terzo capitolo che segue già un sequel, Dying Light 2: Stay Human, ma in particolare riorganizza l’intero progetto, tirando le fila del discorso e ricompattando l’esperienza, anche nell’ottica di evoluzioni future. Torna sugli schermi il protagonista del primo Dying Light, Kyle Crane, destinato a incontrare Aiden Caldwell, il tormentato eroe di Stay Human, in un episodio spettacolare che sintetizza il meglio di due mondi e si configura alla stregua di un ponte attraverso il quale recuperare in parte proprio il puro feeling del capostipite, ripensando daccapo certi aspetti di una grande produzione come Dying Light 2. In principio The Beast era stato concepito addirittura come contenuto scaricabile del sequel, ma si è incamminato presto per la sua strada, trasformandosi in pratica da espansione a terzo capitolo ufficiale di Dying Light, la serie che ha raccolto l’eredità dell’accattivante formula esplorata dallo studio di Varsavia sin da Dead Island. Non il tipico first-person shooter, ma un survival in soggettiva in cui acquistano maggiore importanza gli scontri corpo a corpo - con mazze, armi da taglio, strumenti di fortuna o autocostruiti - che Techland ha portato all’estremo inserendoli all’interno di un contesto dalle meccaniche via via più dinamiche. La capacità di movimento che in Dying Light pesca a piene mani dall’agilità acrobatica del parkour rappresenta un unicum nel panorama dei giochi in prima persona e rende molto più interessante ogni azione, offrendo continuamente nuovi spunti e chiavi di lettura, che si tratti di esplorare, fuggire, raggiungere un punto della mappa, mentre si ricerca il giusto flow saltando, arrampicandosi, correndo, schivando, in un blockbuster ricco di dettagli realizzato con l’estro artigianale e la cura amorevole di Techland. L’open world si dimostra un elemento centrale del game design pronto a risplendere in The Beast, che nell’ambientazione post-apocalittica di Castor Woods fa un riuscito sunto tra panorami naturali e aree edificate, riprendendo la dualità del titolo, riferimento anglofono al tramonto. Il ciclo giorno-notte scandisce profondamente l’avventura ed è sempre quando calano le tenebre che si materializzano gli incubi peggiori, anche se stavolta non mancano creature coriacee in grado di resistere alla luce del sole. Del resto, lo stesso Kyle Crane ha sviluppato parallelamente facoltà superumane, leitmotiv ludico-narrativo attorno cui ruota proprio Dying Light: The Beast che, nel domare la bestia, si domanda chi sia il vero mostro e fino a dove si ci possa spingere per vendetta.
DAEMON X MACHINA: TITANIC SCION (Marvelous, per Pc e console)
Che futuro costruiranno le generazioni che verranno dopo di noi? Con l’evoluzione della scienza e della tecnologia che procedono a un ritmo sempre più veloce saranno gli uomini a dominare le macchine o saranno le macchine a usare gli uomini? Sono gli interrogativi sottesi a Daemon X Machina: Titanic Scion, il sequel di Daemon X Machina sviluppato da Marvelous First Studio, sussidiaria della nipponica Marvelous Inc. Era il 2019 quando Daemon X Machina usciva per Switch, anche con l’obiettivo di vivacizzare la scena dei titoli di fantascienza con i robottoni che non era particolarmente affollata per la console lanciata due anni prima da Nintendo. Nello sparatutto d’azione già infuriava lo scontro tra esseri umani e macchine. I primi, sopravvissuti alla devastante collisione tra la luna e la terra, si erano affidati a un’intelligenza artificiale evoluta per ripristinare condizioni adatte alla vita. Il problema sorse con l’arrivo a sorpresa degli Immortal, una razza di macchine giunta dallo spazio capace di far rivoltare l’intelligenza artificiale contro chi l’aveva creata, determinando una guerra da combattere fino all’ultimo superstite, in uno schieramento o nell’altro. Per sventare i piani degli Immortal la speranza veniva allora riposta nei Reclaimer, mercenari d’élite corazzati con armature robotiche, gli Arsenal, personalizzabili con diverse armi per portare a termine le missioni nei panni della recluta più giovane del gruppo, unendo eventualmente le forze con gli amici in co-op locale oppure online o sfidando altri Reclaimer esaltando lo spirito competitivo. Con Daemon X Machina: Titanic Scion, pensato per le nuove piattaforme, i guerrieri di un domani diventato più incerto e cupo sono ancora ai comandi degli Arsenal, ma i robot, disegnati da un grande esperto del settore, l’animatore Shoji Kawamori, si sono snelliti a vantaggio di agilità e velocità, proiettati a scontrarsi in aria e sul terreno con inediti nemici, gli Axiom. Ci si muove su un pianeta alieno che diventa esplorabile liberamente, per trovare strutture speciali che sicuramente nascondono pericoli, ma custodiscono pure risorse preziose. Lo stesso stile visivo si è evoluto, andando nella direzione di un maggior realismo cinematografico nel solco dei manga gekiga al posto della precedente grafica ispirata agli anime. Emerge così un immaginario ricco di echi dal Made in Japan e da libri o film della science, anche se a guidare il produttore Kenichiro Tsukuda è stata soprattutto una riflessione lontana dalle più estreme frontiere high-tech che si affrontano negli scontri, da soli o in compagnia, di un videogame dal ritmo adrenalinico e spietato destinato a diventare un caposaldo in grado di fare la felicità di ogni appassionato del genere mecha. Tsukuda ha evocato la bellezza di antichi giochi come Shogi o Mahjong, dalla storia millenaria alle spalle che nondimeno continuano a essere apprezzati e utilizzati, con l’auspicio di essere riuscito a trasmettere in Titanic Scion ciò che veramente coinvolge nel divertimento e che rende un titolo un classico senza tempo. In programma anche un supporto a lungo termine, nell’arco dei mesi, con un’espansione prevista in novembre e altri boss in dicembre, mentre il primo aggiornamento gratuito è scaricabile insieme ad alcune correzioni e gli immancabili dlc estetici per le personalizzazioni.
ASSASSIN’S CREED SHADOWS: GLI ARTIGLI DI AWAJI (Ubisoft, per Pc, Ps5 e Xbox Series)
Il vero finale di Assassin’s Creed Shadows si nasconde in un’espansione, che continua l’avventura dopo i titoli di coda del videogame principale. Gli artigli di Awaji aggiunge un’intera ambientazione per il gioco, l’omonima isola dove i protagonisti Naoe e Yasuke si recano per far luce su un mistero familiare che sin dalle prime battute di Assassin’s Creed Shadows arrovella l’eroina. È proprio la sua vicenda a porsi al centro del dlc, anche se l’episodio extra si occupa parallelamente di riannodare i fili del secolare intrigo tra assassini e templari, mentre il possente samurai Yasuke, che si può ancora alternare con la shinobi Naoe, guadagna il ruolo effettivo di compagno affiancandosi maggiormente tanto sul piano narrativo quanto in certe fasi giocate. Alcune richiedono al duo di collaborare svolgendo a turno incarichi diversi in un contesto condiviso per raggiungere determinati obiettivi dove bisogna affidarsi di volta in volta alle specialità di ciascuno: la furtività di Naoe, la forza in battaglia di Yasuke. Per entrambi ci sono anche armi e armature ad hoc da ottenere e sfoggiare, ma è Naoe a ricevere più attenzioni, con l’introduzione attraverso Gli artigli di Awaji di uno stile di combattimento inedito, il bo, basato sul bastone, molto efficace e coreografico. A entrare in scena pure un nuovo cast di avversari particolarmente coriacei e caratterizzati, le cui sfide presentano interessanti variazioni rispetto ai classici scontri esplorando altre idee di game design, come specialmente in una, che è un chiaro omaggio alla scuola dei Metal Gear Solid. Gli artigli di Awaji resta però anche e soprattutto l’ennesima, affascinante espressione del canone open world portato avanti da Ubisoft con gli Assassin’s Creed. In questo senso, l’isola si sviluppa alla stregua di un contenuto tematico, definito attorno a note cupe di terrore, quasi horror, dove la tensione risulta palpabile tra trappole, imboscate e il senso of wonder di una natura selvaggia che inserisce un’ulteriore chiave di lettura per lo splendido ritratto del Giappone feudale offerto in Assassin’s Creed Shadows.
READY OR NOT (Void Interactive, per Pc, Ps5 e Xbox Series)
Con le serie abbandonate che i fan sognano un giorno finalmente di riprendere in mano si potrebbe riempire il digital entertainment. Spesso ci si domanda il perché di certe scelte. Non è nemmeno detto manchi un mercato per determinati titoli. A dimostrarlo l’esempio lampante di Xcom, il reboot con cui Firaxis nel 2012 ha azzeccato tutto, anche forse il momento giusto per rilanciare non solo la saga anni Novanta degli Ufo/X-Com, ma l’intero genere dei tattici a turni di quella scuola. Ready or Not ha replicato qualcosa di simile per una precisa tipologia di first-person shooter che richiama subito un vecchio cult: SWAT, lo sparatutto nato da una costola di Police Quest dell’allora leggendaria e prolifica Sierra, quando anche i successi di Ubisoft guardavano nella stessa direzione con i classici della Red Storm di Tom Clancy, dai primi Rainbow Six all’originale Ghost Recon. La definizione sparatutto in questo caso non risulta in effetti la più appropriata, dato che si tratta di accurate simulazioni di operazioni speciali che richiedono azioni chirurgiche, dove bisogna affrontare situazioni ad alto rischio limitando al massimo i danni. In particolare con Ready or Not, erede spirituale di SWAT, un simulatore di forze di polizia, l’obiettivo è completare ogni incarico senza fare vittime, neppure tra i cattivi, nonostante gli orrori che ci si trova davanti il cui impatto può provare duramente la psicologia della squadra, che però deve continuare a mantenere un approccio professionale e seguire precise procedure pensate per proteggere l’incolumità delle persone coinvolte, raccoglie prove, mettere in sicurezza la scena del crimine, fermare e assicurare i colpevoli alla giustizia. Realizzato con il supporto di esperti e consulenti, il videogame di Void Interactive pone al centro una ricchezza di elementi tattico-strategici, l’importanza della pianificazione e la capacità di gestire l’imprevisto, il coordinamento del team durante le irruzioni (in co-op online o tramite comandi per i compagni affidati in single player all’intelligenza artificiale), vere armi e gadget usati dalle teste di cuoio sul campo, studiando la materia in maniera dettagliata. Ciascuna missione assomiglia a un piccolo film o agli episodi di una serie tv. Prendendo spunto da scenari concreti sconvolgenti, diventa la tappa di una discesa all’inferno sullo sfondo della fittizia Los Suenos, una metropoli degli Usa che condensa il peggio che si può incontrare. Si va dai trafficanti di esseri umani alle rapine con ostaggi, dai cartelli della droga che non si fanno scrupoli a compiere torture indicibili fino alle case dei serial killer, dove dietro una facciata perbene si nasconde il mistero della scomparsa di bambini, o ancora la triste parabola americana delle stragi nelle scuole. Il senso di autenticità si spinge all’estremo, in una rappresentazione apparentemente senza filtri e insieme molto cinematografica. Ready or Not evita pause o filmati, ma risulta a suo modo una grande narrazione interattiva, da viversi tutta in diretta, con il cuore del racconto affidato allo spirito di osservazione e all’azione che scorre implacabile sullo schermo in tempo reale, facendo propri gli insegnamenti della mitica Irrational Games di Bioshock, in passato al lavoro anche su SWAT 4.
FROSTPUNK 2 (11 bit studios, per Pc, Mac, Ps5 e Xbox Series)
L’inverno senza fine di Frostpunk 2 è arrivato anche sulle console di Sony e di Microsoft, mantenendo tutte le caratteristiche che avevano già brillato nella versione per Pc, comprese la modalità Serenity e la nuova mappa Heat. Per l’editore e sviluppatore polacco 11 bit, che fa del supporto a lungo termine dei suoi titoli un motivo di orgoglio, il primo compleanno di Frostpunk 2, uscito su computer il 20 settembre 2024, ha offerto anche l’occasione per pubblicare sul canale YouTube della software house un video che sintetizza gli aggiornamenti e i contenuti extra resi disponibili in questi dodici mesi. Un’altra caratteristica distintiva della casa di Varsavia sta nell’affrontare temi di forte impegno sociale, dando voce a un’umanità ferita. In This War of Mine (2014) ha mostrato la guerra vista attraverso le sofferenze dei più vulnerabili nella popolazione civile, trovando ispirazione dall’assedio di Sarajevo del 1992-1996 come da Memorie dell’insurrezione di Varsavia del giornalista Miron Bialoszewski, un classico della letteratura polacca del Novecento tradotto per la prima volta in italiano da Adelphi nel 2021. This War of Mine si rivela così un monito in difesa della pace, contro qualsiasi proposito bellicista. Il recente The Alters interroga sulla questione dell’identità e del libero arbitrio nell’epoca dell’intelligenza artificiale, con lo sguardo puntato alle frontiere di un progresso scientifico-tecnologico interessato alla clonazione di ogni forma di vita umana. Non è sempre chiaro capire chi sfrutta chi, se sia l’uomo a dominare le macchine o il contrario. In Frostpunk (2018) e nel sequel Frostpunk 2 (2024) è tutto il mondo a essere collassato dopo una bufera apocalittica, con l’ultima città sulla Terra a raccogliere i sopravvissuti, circondati da un freddo ormai perenne e un disperato bisogno di ottenere fonti di calore, in un richiamo agli effetti dei cambiamenti climatici e alle dinamiche con cui le società provano a superare i momenti di crisi. Frostpunk 2 espande l’esperienza sotto molteplici aspetti: la città diventa una metropoli, con la necessità di affinare ulteriormente la gestione delle risorse, per non rimanere a corto delle quali si esplora l’ignoto impiantando colonie strategiche. Sull’ambiente urbano sono applicati i principi della zonizzazione, in cui le diverse aree vengono associate a una funzione, ma sono necessari anche edifici speciali per accogliere la Camera del Consiglio, dove approvare le leggi e discutere sulle direzioni da imprimere alla comunità, e i laboratori di ricerca, nei quali elaborare progetti e soluzioni innovative ai tanti problemi che si affacciano. Non secondario è occuparsi delle fazioni assetate di potere che si formano sempre più con l’aumentare della popolazione, stringendo alleanze con gli uni senza troppo inimicarsi gli altri, nell’instaurarsi di fragili equilibri, di fronte a dilemmi morali che costringono a compiere scelte difficili.
BABY STEPS (Devolver Digital, per Pc e Ps5)
“Perché le persone continuano a fare cose che le rendono infelici? Credo possa essere questo il più grande mistero dell’essere umano”. Ed è anche con l’intenzione di risvegliare la consapevolezza verso questa sorta “di amore latente verso scelte vessatorie” che è venuto alla luce Baby Steps, frutto della collaborazione tra l’autore Bennet Foddy, il programmatore Gabe Cuzzillo e il compositore Maxi Boch. Australiano, laureato in Filosofia morale all’università di Melbourne, con studi di specializzazione a Princeton e a Oxford, Foddy, docente al Game Center dell’università di New York, è sempre rimasto affascinato dal movimento, creando una serie di videogame sul tema che adesso, con Baby Steps, giunge al suo coronamento, in un’ambientazione 3D open-world tutta da esplorare. Il problema è che camminare è un’impresa per il nostro antieroe, un trentacinquenne disoccupato, sovrappeso e completamente fuoriforma, che trascorre le sue giornate senza uno scopo a guardare la tv spaparanzato sul divano. Improvvisamente catapultato in mezzo alla natura, vestito con una tutina che ricorda quella dei neonati, ecco che Nat non può fare a meno di cercare di muoversi, ma ogni azione gli riesce impossibile, a causa dei muscoli quasi atrofizzati. Cadendo, scivolando, appoggiandosi ad appigli precari, all’uomo non resta che tentare di riappropriarsi della sua esistenza, un passo dopo l’altro, recuperando a poco a poco forze e sicurezza, in un’impresa che si preannuncia dura, senza sconti. Seppur volutamente caricaturale, la fisica dei gesti compiuti emula quella reale, per cui Nat non ha scuse, né possibilità di bluffare: deve farcela reimparando come quando era un bambino, mentre attorno a lui si dispiegano paesaggi sconfinati, modellati anche sulle escursioni compiute insieme da Foddy e Cuzzillo lungo i sentieri di Old Rag Mountain nello Shenandoah National Park in Virginia come tra le rocce di Angels Landing nello Zion National Park dello Utah, ma fonti di ispirazione si sono rivelate pure le esotiche avventure di Uncharted. Per il pigro Nat si tratta anche di un percorso di educazione al vedere, alla contemplazione di scorci di cui inizialmente non riesce a cogliere la bellezza, impegnato com’è a tentare disperatamente di stare in piedi, goffo, ansimante, senza prospettive. Baby Steps diventa così un apologo con il quale mettere in luce l’importanza di dare un significato alla propria vita in modo da avere una meta cui tendere, invece di consumarsi in distruttive giornate sempre uguali le une alle altre. Per Foddy tradurre la fisica reale del movimento in un videogame è un pallino di vecchia data, già applicato nel 2008 a QWOP, che simulava i movimenti di un manichino snodabile, separando il controllo delle cosce delle gambe di un centometrista da quello dei polpacci, rendendo ardua la corsa dell’atleta in pista. Baby Steps ne eredita certe dinamiche, però senza essere così punitivo. C’è speranza per Nat che nel frattempo dovrà affrontare vari dilemmi: cosa c’è in quella cavità che viene presentata come profonda e dalla quale non si potrà uscire? Contano più la nostra curiosità e la voglia di sperimentare oppure gli avvertimenti che, a torto o a ragione, vorrebbero tutelarci, con la conseguenza di autoimprigionarsi in una gabbia che per Nat non è neppure dorata?
VOID CREW (Focus, per Pc, Ps5 e Xbox Series)
Nello spazio profondo, da soli o in sei giocatori in co-op, Void Crew è l’omaggio dello studio danese Hutlihut Games all’amata fantascienza, reso adesso disponibile anche sulle console di Microsoft e di Sony con l’apporto di Piktiv AB. Sei giocatori come i sei fratelli di Daniel Windfeld, fondatore e direttore creativo della software house indie di Copenaghen. Proprio la passione dei Windfeld per il gioco online in modalità cooperativa ha suggerito di porre l’accento su un titolo nel quale collaborare fosse indispensabile, perché inevitabilmente dipendenti gli uni dagli altri. È nato così Void Crew, epico viaggio su un’astronave da governare e dove ognuno è responsabile di qualche compito, comunque fondamentale. Lo sforzo di adattamento alle necessità che si affacciano è continuo, lanciati in un ambiente tanto meraviglioso quanto concretamente ostile. I ruoli all’interno dell’equipaggio possono essere scambiati all’occorrenza, ma ci si può pure specializzare in un’attività, sempre pronti a venire in aiuto laddove richiesto. I danni inferti alle strutture dai nemici che popolano queste lande sconfinate, minacciando la sopravvivenza dell’umanità, hanno un impatto non solo sull’astronave da riparare velocemente per renderla di nuovo efficiente, ma sullo stato d’animo del team. Le interazioni sono infatti a ogni livello alla base del videogame, perciò è necessario dialogare, accordarsi, pianificare strategie, coordinarsi, mentre i nostri compagni faticano anche psicologicamente ad affrontare fenomeni estremi, quali tempeste meteoriche ed eruzioni solari dagli effetti eccezionali. Per non parlare di alieni ostili e predoni disposti a tutto, che rendono l’esplorazione, di per sé piena dell’incanto infantile di un tuffo volutamente un po’ tragicomico verso l’infinito e oltre, quantomai irto di pericoli e gag che escono fuori naturali un errore dietro l’altro lavorando in gruppo, ma anche in single player, correndo all’impazzata per ricoprire i vari ruoli. Se l’approccio ai comandi è intuitivo, l’organizzazione della missione può rivelarsi infatti molto complessa, per i fattori da considerare, in una competizione agguerrita per accaparrarsi risorse, con il rischio incombente di essere attaccati dai pirati. In Void Crew l’unione fa veramente la forza. Il nome scelto per la casa, Hutlihut, coincide con una parola danese resa popolare dall’esultanza dei tifosi del calcio e usata anche nei brindisi: un’espressione dunque di gioia, con riferimento a un’idea di gioco che sia soprattutto divertimento insieme agli amici.
NO, I’M NOT A HUMAN (Critical Reflex, per Pc)
Di chi ci possiamo veramente fidare? Nel futuro di No, I’am not a Human il riscaldamento globale è diventato un’emergenza inarrestabile. Il sole emana una luce letteralmente accecante e un calore che non si riesce a sopportare. La vita si svolge dunque soltanto di notte, quando però sorgono altri pericoli mortali. Dalle viscere della terra sono emerse strane creature, i Visitatori, che possono assumere sembianze umane per ingannare e uccidere. Quando, al calar delle tenebre, sentiamo bussare alla nostra porta non possiamo mai avere la certezza che chi cerca da noi un rifugio, per non trovarsi per strada nelle ore diurne che non lasciano scampo, sia effettivamente un essere umano o un Visitatore. Possiamo affidarci al nostro intuito o a un rapido sguardo su alcune caratteristiche che, almeno in teoria, potrebbero essere dirimenti, ma che soltanto avvicinandosi e osservando con calma, se l’ospite lo permette, si riescono a valutare, per esempio guardando lo stato dei denti, come nella Cosa di Carpenter. Restare in casa da soli non è un’opzione consigliabile perché si finisce vittima del Super Impostore, modellato sull’inquietante giudice Holden di Meridiano di sangue di Cormac McCarthy, uno dei molteplici riferimenti letterari rivelati dagli stessi sviluppatori dello studio indie Trioskaz. Un ospite incline all’alcol è invece liberamente ispirato al poeta Sergej Esenin, del quale risuonano i versi. Nei dialoghi vengono citati inoltre brani di cantanti russi contemporanei, in uno stratificarsi di rimandi e allusioni. Collegamento con l’esterno sono la radio, da sintonizzare però sulle stazioni giuste, e la tv, che aggiorna anche sui nuovi indizi da controllare per smascherare i Visitatori, mentre sullo schermo si ripetono le immagini del Lago dei cigni, il balletto che - ricordano gli sviluppatori - veniva trasmesso in modo incessante nel periodo dell’imminente crollo dell’Urss e diventato simbolo della fine dell’era sovietica. In No, I’am not a Human è la stessa umanità a trovarsi sull’orlo dell’estinzione, in un’atmosfera di totale insicurezza, dove niente è ciò che sembra e la paranoia alimenta il clima di paralizzante paura, tra gli incubi di un cupo surrealismo esasperato, prigionieri di un loop dai finali multipli.
INTO THE DEAD: OUR DARKEST DAYS (PikPok, per Pc e Mac)
Bentornati nel mondo invaso dagli zombi, lo stesso dove catapultavano i successi mobile Into the Dead (2012) e Into the Dead 2 (2017), ma che adesso con Into the Dead: Our Darkest Days, su Steam in accesso anticipato, è pronto a compiere un deciso salto di qualità per guidare su Pc e Mac, in una produzione di più ampio respiro, un gruppo di sopravvissuti verso la possibile salvezza. Siamo nel 1980, nella città costiera di Walton, in Texas, e innanzitutto si deve provare a rompere l’accerchiamento, scappando da una metropoli trasformatasi in una trappola letale. A realizzare questo affascinante survival a scorrimento laterale è lo studio PikPok, software house di Wellington, tra le maggiori e più longeve della Nuova Zelanda. Qui il settore dei videogame è in forte crescita, con una scena molto vivace fiorita attorno alla capitale, riconosciuta dall’Unesco tra le città simbolo della settima arte, linguaggio finito a intersecare nel Paese sempre più quello videoludico. Scelti un paio di superstiti, ciascuno con peculiari abilità che modificano le opzioni strategiche, si va a caccia di risorse, muovendosi furtivi e setacciando edifici abbandonati nelle vicinanze, con le loro tracce di vita ad aggiungere angoscia in una situazione drammatica. La base, pur precaria, va rinforzata così da fornire una qualche sicurezza a persone minate nel fisico dalla fame e dalle ferite, nonché nello spirito dalla paura e dalla depressione che non consente di vedere una via d’uscita. Nel frattempo si uniscono altre persone, portando con sé doti e difetti. Se periscono tutti, si ricomincia daccapo con altri protagonisti, cercando di far tesoro dell’esperienza, con atteggiamenti più cauti e prudenti. Poiché non ci si può allontanare troppo dal rifugio, occorre spostare ripetutamente la sede per andarsene definitivamente dalla città. Ad accrescere il senso di urgenza concorre la musica di sottofondo, inquietante e sinistra. Lo stato di tensione è costante, in questo ben ricostruito angolo di America in pieno spirito anni Ottanta, che riecheggiano in tanti dettagli, mentre si entra nella privacy di sconosciuti le cui abitazioni sono rimaste congelate nell’istante della morte o di una fuga disperata: oggetti, arredi rievocano un’epoca e ricordi spensierati. Più le strutture custodiscono qualcosa che può essere utile per affrontare gli zombi, in primis le armi eventualmente da modificare, più è probabile che ci siano agguerriti non morti da fronteggiare. In circostanze tanto estreme, è la stessa umanità a vacillare, quando viene richiesto di decidere chi proteggere, chi lasciare indietro o addirittura chi eliminare, in una lotta dove l’espressione homo homini lupus può diventare di spietata attualità, a meno di non avere principi ai quali non abdicare mai, portando il peso comunque delle conseguenze. Con l’uscita definitiva che si avvicina, Into the Dead: Our Darkest Days ha appena ricevuto un grosso aggiornamento che aggiunge una zona industriale, armi e personaggi, oltre a una generale rifinitura dell’azione, che si caratterizza già per il ricercato taglio cinematografico.
THE LIFT (tinyBuild, per Pc)
L’istituto di ricerca più all’avanguardia nel mondo, ridotto però in uno stato di completo abbandono. Nei panni di un custode tuttofare ci si deve mettere di buona lena per sistemare, aggiustare, restaurare, dagli oggetti più semplici a macchinari complessi, componendo tessera dopo tessera il mosaico capace di svelare la vera natura dell’incidente che aveva bloccato l’attività del centro. The Lift, originale simulatore di attività manuali, è atteso nel 2026, ma si può già provare in anteprima quanto raggiunto fin qui dagli sviluppatori di Fantastic Signals in questi tre anni di lavoro partecipando al primo playtest pubblico le cui iscrizioni sono aperte fino al 30 settembre. Si tratta del titolo di debutto della software house, con team dislocati tra Serbia e Lettonia, uno studio che però tra le sue fila conta veterani del settore, dietro la realizzazione di videogame come Ori and the Will of the Wisps e Pathologic 2, co-prodotto da Ivan Slovtsov, che a Riga ora dirige Fantastic Signals. Se Pathologic 2 stendeva su un’immaginaria città sovietica della steppa il velo cupo della guerra e di uno strano morbo letale, con The Lift l’intenzione è spostare esattamente all’opposto lo spettro delle emozioni, virato più all’ottimismo nelle sorti magnifiche e progressive dell’umanità, con l’obiettivo inoltre di proporre qualcosa di nuovo, scovato in un filone specifico della fantascienza sovietica, caratterizzato - precisa Slovtsov - da una visione romantica del futuro. La scelta dunque è stata di allontanarsi dal piuttosto affollato genere post-apocalittico e di non ricalcare le atmosfere disperate degli Stalker o di Pacific Drive, ciascuno ispirato a proprio modo al classico Picnic sul ciglio della strada dei fratelli Arkadij e Boris Strugaskij, quanto di trarre materia di riflessione da altre opere dei due celebri scrittori, come Lunedì inizia sabato, sottotitolo Favola per collaboratori scientifici di livello base, frutto anche dell’entusiastica esperienza di Boris, astronomo e informatico, nell’osservatorio di Pulkovo nei pressi di San Pietroburgo. Slovtsov cita poi il fertile ambito della letteratura per bambini e ragazzi, con cui è cresciuto, in particolare i libri di Kir Bulychev, dai numerosi adattamenti cinematografici. L’interesse per il fantastico riversato in The Lift si estende alla scena contemporanea, con riferimento alla SCP Foundation e al progetto di scrittura collettiva online collegato, dove un immaginario a tinte horror, che unisce urban fantasy e fantascienza, si dispiega attraverso la narrazione di fenomeni paranormali ed eventi non spiegabili scientificamente che la fittizia organizzazione, il cui acronimo sta per Special Containment Procedures, cercherebbe di arginare per proteggere l’umanità. Una community dunque che alimenta e si alimenta di creepypasta, leggende metropolitane veicolate tramite internet. A questo alone immateriale, The Lift aggiunge una modalità di gioco profondamente immersa nella realtà: il protagonista per svolgere le sue mansioni deve infatti compiere effettivamente i gesti necessari, come avvitare viti o ruotare manovelle, ingegnandosi con ciò che ha a portata di mano, facendo attenzione a recuperare nei dintorni oggetti e risorse che potrebbero successivamente diventare utili. Ci sono bivi che determinano la prosecuzione dell’avventura in un verso o nell’altro, mentre le ambientazioni ricalcano architettura e arredi di un retrofuturismo memore dell’Urss degli anni Settanta, alla cui solida costruzione hanno contribuito film e libri dell’epoca, regalando un po’ l’atmosfera di un Bioshock in chiave puzzle.