Editoriale
La lunga strada per il Colle
Le questioni - serie e ineludibili - poste dall’imminente elezione del presidente della Repubblica, cui fa da contorno imprevisto il terzo ritorno della pandemia, stanno celermente maturando. Rispetto a tre giorni fa, infatti, è chiaramente emerso il processo di logoramento politico del governo Draghi, di cui il Parlamento è quotidiano testimone.
I partiti intendono impedire e impediscono che l’«arbitraggio» (processo tecnico con la quale si definiscono soluzioni non attribuibili a nessuno dei contendenti) di Draghi abbia successo e ribadiscono in questo modo i loro interessi - divergenti - specifici, non legati alle esigenze della collettività nazionale, ma connessi alle pressioni dei gruppi sociali e delle lobbies di riferimento.
Non sono malvagi, i partiti, sono inadeguate ad affrontare con efficacia i problemi del momento le loro leadership attuali.
L’altro concetto che si sta facendo spazio si può sintetizzare in due parole: il nuovo presidente, chiunque esso sia, comporterà la fine, cioè la crisi del governo Draghi. Mattarella e Draghi «simul stabunt simul cadent» (stanno e cadono insieme): la loro complementarietà politica è così forte da non reggere l’abbandono di uno dei due, in questo caso Mattarella.
L'unico modo a disposizione del Paese per continuare a giovarsi dell’essenziale contributo di Mario Draghi è la sua elezione al Quirinale. Se ciò non accadrà, le dimissioni del premier saranno inevitabili. La ragione è semplice: il non voto da parte di alcune forze politiche della maggioranza rappresenta una scelta di sfiducia nei suoi confronti. Non solo, un nuovo presidente della Repubblica comporta le dimissioni del governo (non un obbligo di legge, ma un obbligo di uso costituzionale). Quindi, dovranno essere avviate le consultazioni. Ora, immaginate le posizioni negoziali di partiti che hanno votato Draghi (perdendo) e di partiti che non l’hanno votato alla luce dell’elezione di un nuovo presidente e della prospettiva di fine legislatura. Fatalmente si imporrà la formazione di un governo di scopo che ottenga dal Parlamento una nuova legge elettorale e indica, appunto, le elezioni.
A oggi, quindi, l’opzione Draghi sembra l’unica seriamente in campo nell’interesse della Nazione.
Questo non significa che passerà. Per esempio, i sovranisti sanno che Draghi al Quirinale sarà ostacolo insuperabile per qualsiasi iniziativa antieuropea e, quindi, faranno di tutto per impedirlo. E i populisti - che indossano provvisorie pelli di agnello - sanno che il loro ruolo sarà, per motivi oggettivi, marginale.
Non c’è da disperare, peraltro. C’è tanta gente, a destra, al centro, a sinistra, che condivide le posizioni di Draghi, che crede nell’Europa e nel futuro del Paese delineato dal Pnrr e dal processo di riforme.
Su di essa possiamo, anzi dobbiamo contare perché l’appuntamento di fine gennaio ci dia in ogni caso un presidente di sicuro prestigio interno e internazionale, capace di onorare i valori dell’Italia repubblicana. Un patriota, quindi, senza connotazioni di parte o di partito.