Intervista
Ivana Monti: «Avevo paura di Re Lear e Strehler mi fece recitare in dialetto»
Il rapporto tra esseri umani e intelligenze artificiali, affrontato spesso al cinema, è più inedito a teatro. È il tema di «Marjorie Prime» dal testo di Jordan Harrison, finalista al Premio Pulitzer 2015, nella produzione del Franco Parenti con la regia di Raphael Tobia Vogel, che sarà ospitato sabato 15 gennaio all'Arena del Sole di Roccabianca.
L’ottantenne Marjorie vive una vita come “sospesa”, è malata di Alzheimer. In casa con lei ci sono la figlia, il genero e un “Prime”, la copia digitale e ringiovanita del marito morto, con cui dialoga a lungo. Marjorie ha il volto e i modi di Ivana Monti, milanese per nascita, reggiana di Toano per genitori, una delle “punte” della scuola del Piccolo che, con una carriera lunga e versatile, dimostra di tenere altrettanto bene i registri drammatici che quelli brillanti.
Signora Monti, com'è nato l'interesse per il testo?
«Nel 2019 mi chiamarono al Teatro Franco Parenti per un’altra produzione. Il giorno dopo mi telefonò Andrée (Ruth Shammah, la direttrice del teatro, ndr) per chiedermi di leggere un copione. Ebbene, mi spiazzò; nulla di simile a cose che avessi mai affrontato. Per fortuna avevo seguito il dibattito intorno ai “Prime”, robot dal volto umano, soprattutto nella trasmissione domenicale di Radio Radicale. Non ne sapevo abbastanza ma la cosa mi incuriosiva. E il personaggio mi piaceva: pur malata, Marjorie è una donna dotata di umorismo, ha tante sfaccettature al punto da chiedermi come poter fare per “rendere” la malattia a cui sono arrivata attraverso cambiamenti di umore e fino all'uso di gestacci, per dimostrare il segno di deterioramento delle capacità di controllo di questa donna. Quindi è stato un “sì”, subito. Mi sono rivolta a mio figlio Tommaso (Barbato, ndr), perché mi spiegasse bene i “Prime”. Quando sono arrivata al colloquio, il regista è rimasto sorpreso...».
Conosciamo il suo percorso, una carriera iniziata con Giorgio Strehler, di cui in agosto si è celebrato il centenario.
«Di Strehler si dice “maestro” non solo dal punto di vista teatrale ma per la capacità che aveva di approfondire e spiegare i testi declinandoli nella nostra attualità, nel sociale. Nel “Re Lear” ero una delle figlie che tolgono tutto al padre, il re. Quando toccava a me togliere gli ultimi 100 cavalieri che erano rimasti a Lear, a ogni risposta di Tino Carraro con quel tono apocalittico, mi intimidivo: avevo 25 anni, eravamo nel 1972, sentivo il peso dell’autorità paterna. Strehler capì questo mio turbamento e mi prese da parte: “parla in milanese, come diresti al nonno di andare a letto dopo il Carosello perché è tardi, va a durmì ”. È un aneddoto che non ho mai raccontato. Ecco mi fece capire che le relazioni tra questi personaggi potenti e violenti di Shakespeare sono le stesse che si trovano nelle famiglie. Strehler era una lezione continua».
Altri maestri con cui ha lavorato: Franca Rame e Dario Fo.
«Tre sono le cose che mi hanno perforato cuore e mente. Uno senz’altro “Re Lear”. Poi l’incontro con Dario Fo e Franca Rame: con Franca feci “Settimo ruba un po’ meno” in cui conobbi la sua comicità corrosiva; con Dario “Ci ragiono e ci canto”, una straordinaria galleria di canzoni d’amore, di guerra, di tutto che mi accompagna per la vita che ho ripreso in un mio spettacolo dedicato alla nostra Emilia; la terza esperienza teatrale entrata nelle mie piastrine è “Fede, speranza, carità” di von Horváth con la regia di Lamberto Puggelli. Per la televisione lo sceneggiato “Arabella” di Salvatore Nocita (girato anche a Salso, ndr)».
Si sente in lei il desiderio dell’incontro, della recitazione. Desiderio ricambiato dal pubblico che però ha anche un po’ paura.
«Dico quello che dicono tutti, che il teatro si è messo da subito in sicurezza, che le regole per accedere sono strettissime, per pubblico, tecnici e artisti. Ho fatto la terza dose e sono pronta a fare la quarta se necessario. Come compagnia abbiamo l'impegno di tenere comportamenti virtuosi per garantire non dico il “servizio” ma l'incontro del teatro».
Chiudiamo il cerchio con il teatro.
«Sì, aggiungo che nella pièce c'è anche un giallo. La protagonista, sempre brillante pur nel suo declino, ha un segreto di famiglia: ricorda o non ricorda? Riprendendo ora il testo, ci ho ripensato e la vedo diversamente dall’ultima volta, ma non dico nulla in più, lo vedrete».
Mara Pedrabissi