La testimonianza della figlia: «Il suo nome tra i Giusti»

«Mia madre salvò un ebreo dalla deportazione»

Luca Pelagatti

A questa storia manca solo il finale. Il resto c'è tutto: ci sono la paura e la speranza, la ferocia e l'umanità Per una volta è stata quest'ultima a trionfare. A riprova che non sempre pietà l'è morta. O, almeno, non lo era, almeno, per Derna Papini, una donna di Parma che, quasi 80 anni fa, di colpo si trovò in mano il destino di uno sconosciuto. Lei non ci pensò neppure un istante: si fece prendere sottobraccio. E gli salvò la vita anche se quelli erano gli anni della guerra. Quando non si moriva solo per le bombe. Ma anche per un nome, una religione. Per una razza.

«La mia famiglia abitava sullo Stradone, a poca distanza da via XXII Luglio - spiega Marta Dazzi, figlia di Derna – e quel giorno mia mamma era andata in Ghiaia a fare la spesa. Al suo ritorno, quando era praticamente arrivata a casa, si trovò davanti un gruppo di persone scortate da soldati. E istintivamente si fermò a guardare».

Scene di quel genere non erano inusuali al tempo e di convogli di disperati ne passavano di frequente. La cosa migliore da fare era abbassare gli occhi, guardare altrove. Insomma, farsi i fatti propri. Ma in quel caso le cose andarono diversamente.

«Dal gruppo di prigionieri, per una distrazione dei soldati che li stavano scortando, riusci ad uscire un uomo che vedendo mia madre le si avvicinò e con la voce intrisa di paura le chiese di aiutarlo. “Mi parli per favore, faccia finta di essere con me, mi salvi la vita”, disse quello sconosciuto».

Derna Papini era una donna comune: una mamma che lavorava in casa e per arrotondare faceva fiori artificiali per le modiste che compiacevano le umili vanità delle signore. Insomma non era certo una eroina. Eppure non esitò un attimo.

«Da quello che si è raccontato poi per tante volte in casa nostra mia madre fece quello che l'uomo le chiedeva: gli si mise a fianco, iniziò a parlottare, si diresse a passo lento verso casa». Ed evidentemente i carcerieri ci cascarono: non avevano visto l'uomo uscire dal gruppo e non lo degnarono di uno sguardo quando lo videro andare via con quella donna con le borse della spesa. Che, in fondo, non poteva esserci una scena più banale, rassicurante.

Nessuno sa, oggi, cosa sia passato per la testa a Derna in quei momenti, se abbia anche sorriso mentre con la paura nelle ossa guidava quel prigioniero verso la salvezza. Ma si sa comunque cosa fece dopo: «Chiamò mio padre e insieme decisero di aiutarlo».

Inutile ripeterlo: voleva dire rischiare tutto. Ma nonostante questo si diedero da fare. Il marito Aldo Dazzi, impiegato al Consorzio Agrario, spostò un po' di roba ammassata in soffitta e ricavò uno spazio per il fuggiasco mentre Derna mise qualcosa sul fuoco. In casa, intanto, il figlio della coppia giocava inconsapevole di tutto questo come è giusto che sia per un bambino e lo rimase per una settimana.

Per tutto questo tempo, infatti, la coppia ospitò e protesse quello sconosciuto che raccontò la sua storia. Tanto simile a quella di chissà quanti altri: «Sono di Reggio Emilia, sono un ebreo, mi hanno arrestato e il nostro convoglio era diretto in stazione dove mi avrebbero caricato su un treno diretto chissà dove».

La guerra, in quei giorni, era ancora in corso, i carri armati con la stella rossa non erano ancora arrivati ai reticolati grondanti sangue di Auschwitz e nessuno aveva sentito parlare di Olocausto, della follia che diventa scienza dello sterminio. Eppure è, con ogni probabilità, da quel destino e da quella fine che Aldo e Derna salvarono l'ebreo. Che dopo una settimana aiutarono a ripartire.

«Lo rivestirono e gli passarono i documenti di un parente morto da poco sperando che gli servissero per passare i controlli, per non ricadere nelle mani di tedeschi e camicie nere. Poi gli diedero una vecchia bicicletta da donna con cui decise di tornare oltr'Enza, verso casa. E non seppero più nulla di lui».

Lo abbiamo detto: a questa storia manca il finale. Nessuno può dire se riuscì a rientrare, se si sia salvato e se, dopo la guerra, abbia potuto costruirsi una vita. «Ma se lo ricordo ora è perché credo che mia madre abbia fatto un gesto bellissimo e in questo periodo, in cui si celebra la giornata della Memoria mi pare doveroso raccontarlo», conclude Marta Dazzi. Lei è nata qualche anno dopo quell'incontro e la madre Derna e il padre Aldo non ci sono più. Resta però l'eredità di un momento speciale entrato nella storia della famiglia e la consapevolezza che, per fortuna, non tutti si girano dall'altra parte, che l'umanità resiste anche quando sembra che ci sia solo gelo e crudeltà. Che nonostante tutto pietà non è morta.

Luca Pelagatti