I Capannoni: le storie
«Eravamo poveri, ghettizzati. Ma felici per davvero»
Le parole di Piero, Valter, Maria Giuseppina e Luciano sono la storia di sogni nati in una città «invivibile». Quella città nella città che erano i «capannoni», caseggiati popolari costruiti tra il 1929 e il 1935 dal fascismo in zone fuori dal centro urbano, alla Navetta, il Cornocchio, il Cristo, il Paullo e il Castelletto, dove vissero gli sfrattati delle case abbattute nell’Oltretorrente.
Storie di desideri nati in mezzo alla povertà, al pregiudizio, a volte alla violenza, che sono state raccolte nel video «Capanòn» realizzato da Roberto Azzali, parte della mostra a palazzo del Governatore.
«Non è stato facile raccogliere queste testimonianze – rivela Azzali – perché questa è una storia che contiene anche tanto dolore. La storia stessa aveva paura di raccontarsi perché chi la tramanda aveva timore di essere tradito nella narrazione. Narrazione – sottolinea – che per anni ha dato un’idea sbagliata di questa parte di popolazione, definendola come qualcosa di cui vergognarsi».
Ma nello scorrere del passato, non c’è spazio per la vergogna, a prevalere è un orgoglio profondo: «Se fosse per me “capanòn” me lo scriverei in fronte – scherza (forse non troppo) Luciano Fietta – sono orgoglioso delle mie radici». Orgoglioso di quel padre «libero, sveglio e forte» che «cacciava via le ponghe che entravano in casa a mani nude, per non far prendere paura alla mamma» e di quello spazio piccolissimo da dividere con i suoi fratelli e sua sorella, insieme alla vita. «Bastava poco ed eravamo felici – prosegue Luciano –. Giravamo nudi, il più grande badava al più piccolo. Eravamo tutti uniti, c’era e c’è tutt’ora un legame unico e indissolubile».
Ciò che emerge è una semplicità disinvolta nel vivere. Quella dei bambini «perennemente scalzi con un boccone di pane duro in mano», delle case sempre aperte senza chiavi («anche perché c’era ben poco da rubare») e degli «scarti di pastafrolla e di torta che arrivavano dall’amico pasticcere» spiega Maria Giuseppina. Ecco che nei ricordi ci sono anche tanti attimi di felicità intensa: «La mia prima bambola era un sasso raccolto nel fiume su cui mio papà disegnò un volto con il carboncino vestito di pezze cucite insieme da mia mamma – riprende Maria Giuseppina –. Una cosa del genere per un bambino di adesso sarebbe incomprensibile, ma a me bastava, ero davvero felice».
Maria Giuseppina riabbraccia il passato intensamente. Si stupisce ancora per «le luci della festa dell’Unità nel pioppeto dei capannoni di via Montanara» e torna cupo lo sguardo quando a riaffiorare è «quella volta in cui mio padre mi disse “casa nostra si trova in un ghetto”».
E se le si chiede perché si arrabbi ancora davanti a quella affermazione, risponde: «Perché davvero la gente ci guardava con disprezzo, eravamo considerati niente – dice –. Invece chi abitava lì era per lo più brava gente, eravamo una grande famiglia, tutti si davano una mano e nessuno si tirava indietro nel momento del bisogno». Nonostante questo, però, il peso dello stigma arrivava «a livelli insopportabili – confida Valter Fietta –. Per tanto tempo i miei coetanei mi hanno preso in giro. Noi ci sentivamo colpiti in pieno al cuore, dritto all’orgoglio e rispondevamo con la rabbia di chi ogni giorno veniva sbeffeggiato».
Per Valter fondamentale è stato «imparare l’arte dell’arrangiarsi, del cavarsela con niente se non le proprie forze». Alla fine, «con una pinghella ad un tappo di bottiglia, un gioco inventato sul momento, una risata», tutto era credibilmente armonioso nella disarmonia con il resto della città. «Guardavo i cittadini che venivano dal centro, come erano vestiti, le loro macchine – riflette Piero Maini – noi sembravamo arrivare da un altro mondo, un’altra vita». «Eravamo poveri, anzi poverissimi, tanto che il mio letto era un cassetto di un mobile imbottito di coperte – prosegue Piero –. Eravamo 15 fratelli in poco più di una stanza. Ma – conclude – eravamo felici, felici per davvero».
Anna Pinazzi