L'analisi dell'infettivologo

Sarà omicron l'ultima variante?

Carlo Ferrari

Nel periodo trascorso dopo che SARS-Cov-2 ha acquisito la capacità di infettare l’uomo, il virus è andato incontro a molteplici cambiamenti, che hanno condizionato le caratteristiche delle diverse fasi della pandemia che si sono succedute negli ultimi due anni. Come tutti i virus che compaiono per la prima volta, la mancanza della cosiddetta memoria immunitaria contro il virus, cioè della capacità di cui è dotato il sistema immunitario di attivarsi molto più rapidamente ed efficientemente quando viene di nuovo a contatto con un microorganismo invasore già precedentemente incontrato, ha conferito a SARS-Cov-2 un’estrema libertà di diffondersi indisturbato all’interno dell’organismo infettato e di provocare danno del polmone, organo bersaglio, sede di invasione e di replicazione del virus.

Questo significa che il livello di trasmissibilità e di aggressività iniziale di un nuovo virus, come SARS-Cov-2, dipende quasi completamente dalle caratteristiche intrinseche del virus stesso, che potrà giovarsi fortemente dell’assenza della memoria immunologica nell’ospite infettato. E questo è quanto si è realizzato nella prima ondata; si è pensato inizialmente che l’infezione da SARS-Cov-2 fosse poco di più di una semplice influenza, ma così non è stato. Dopo che il virus ha iniziato a diffondersi con grande rapidità, la sua capacità di mutare, cioè di acquisire casualmente dei piccoli ma progressivi cambiamenti del suo patrimonio genetico, ha portato all’emergenza di nuove varianti che hanno condotto all’acquisizione non solo di una capacità sempre maggiore di infettare, ma anche della capacità di sfuggire al controllo del sistema immunitario, che nel tempo ha gradualmente acquisito una sempre maggiore capacità di far fronte all’aggressione di SARS-Cov-2. Si è quindi assistito all’emergenza della variante Alfa, cosiddetta inglese, capace di diffondersi almeno del 50% più rapidamente delle precedenti varianti. All’incirca nello stesso periodo, in differenti regioni del mondo sono comparse altre varianti, in particolare la Beta e la Gamma, che oltre a trasmettersi molto efficientemente hanno cominciato ad acquisire la capacità di sfuggire al controllo del sistema immune dell’ospite.

Un ulteriore salto evolutivo si è quindi realizzato con l’emergenza della variante Delta, ancora più trasmissibile di alfa, circa il 60% in più, quindi una sorta di super-Alfa. Con questo cambiamento delle caratteristiche di SARS-Cov-2, il valore di R0, che viene usato per valutare la capacità del virus di diffondersi all’interno di una popolazione cosiddetta naive, cioè mai precedentemente esposta al virus, e che indica il numero di persone a cui un singolo paziente infetto può trasmettere l’infezione, è aumentato di circa tre volte, ponendo SARS-Cov-2 in una posizione intermedia fra il virus influenzale e il virus del morbillo, noto per essere dotato di elevatissima capacità di trasmissione. E’ ovvio però che i virus devono riuscire a bilanciare un’alta capacità di replicare e diffondersi con la necessità di mantenere le persone infettate sufficientemente “sane” per garantire la possibilità di infettare altre persone. In altre parole, ad un certo punto del suo percorso evolutivo, un nuovo virus come SARS-Cov-2, dovrebbe acquisire un equilibrio fra rapidità di diffusione e gravità della malattia che determina, tale da poter continuare a diffondersi indisturbato all’interno della popolazione, assicurandosi la propria sopravvivenza a fronte di un basso danno dell’ospite infettato. E’ questo il modo in cui un nuovo virus può diventare endemico per la popolazione, come è il caso del virus influenzale e di altri coronavirus, cosiddetti stagionali, che continuano a circolare avendo raggiunto un equilibrio stabile con l’ospite infettato.

Questo equilibrio non è certo stato raggiunto con la variante Delta di SARS-Cov-2, che oltre a replicare più rapidamente delle varianti precedenti era anche in grado di causare malattie più gravi. Ma con Omicron siamo arrivati ad una sorta di primo “patto fra virus e uomo”, che fa ben sperare per il futuro, cioè ad un punto di equilibrio che permetta da una parte a SARS-Cov-2 di diventare endemico, guadagnando così un suo spazio di sopravvivenza nell’organismo umano, e all’uomo di tollerare la presenza di SARS-Cov-2 con il minimo possibile di danno.

Non ne siamo ancora sicuri, ma possiamo forse essere sulla buona strada. Omicron condivide con delta alcune mutazioni che hanno reso Delta altamente trasmissibile, ma contiene anche mutazioni che gli permettono di evadere dal controllo degli anticorpi neutralizzanti in modo più efficace. Questo fa sì che Omicron sia capace di infettare soggetti precedentemente infettati dalle varianti precedenti, compresa la Delta, o che abbiano acquisito immunità anti-SARS-Cov-2 con la vaccinazione. Tuttavia, Omicron sembra essere meno aggressivo rispetto a Delta, facendo sperare che ci si stia davvero avviando verso una fase di convivenza “più pacifica” fra virus e ospite, tipica delle situazioni endemiche.

Omicron endemico?
E’ davanti agli occhi di tutti che con l’emergere di Omicron si è assistito ad un forte incremento del numero delle infezioni. Anche se la percentuale di ospedalizzazione è calata rispetto al numero totale delle nuove infezioni, suggerendo un minore rischio di malattia severa e di morte determinato da Omicron rispetto alle varianti precedenti, il numero assoluto di ricoveri risulta comunque aumentato come conseguenza dell’enorme aumento di nuove infezioni comunitarie, mantenendo quindi elevata la pressione sul sistema sanitario della maggior parte delle nazioni.

Esiste quindi con omicron una dissociazione fra numerosità di nuovi casi di infezione che è enormemente aumentata e percentuale di casi che richiedono ospedalizzazione e che evolvono verso forme di malattia severe e verso la morte che è invece diminuita. Questo potrebbe essere dovuto ad una minore aggressività intrinseca di Omicron, ma anche ad una maggiore protezione operata dalla vaccinazione sulla malattia severa rispetto alla più limitata protezione sulla semplice infezione. Una risposta più sicura a questi quesiti potrebbe essere fornita dalle popolazioni che abbiano una minore copertura vaccinale ed una minore esposizione precedente alle altre varianti del virus. Sul grado di severità di Omicron in questi contesti rimane però incertezza.

La velocità di trasmissione
I dati disponibili indicano un vantaggio di crescita di Omicron nell’organismo infettato, un più alto tasso di “attacco secondario”, inteso come probabilità che l’infezione si diffonda fra i soggetti suscettibili all’interno di un determinato gruppo di persone (ad esempio all’interno del nucleo familiare), e un più elevato “numero di riproduzione” (R0), inteso come numero di persone a cui un individuo infetto può trasmettere l’infezione durante il proprio periodo di infettività, rispetto alla variante Delta. Per esempio, è stato calcolato in due studi distinti, uno inglese e l’altro danese, che il tasso di attacco secondario di omicron rispetto a Delta in ambito familiare è del 13,6% contro il 10,1% (studio inglese) e del 31% contro il 21% (studio danese).

Esiste una notevole quantità di dati di buona qualità che indicano come questo vantaggio di trasmissione sia almeno in parte dovuto alla capacità del virus di evadere dal controllo esercitato dal sistema immune. Stime derivate da studi sudafricani indicano come Omicron sia del 36% più trasmissibile di Delta, ma che riesca a ridurre il controllo immunitario anticorpale di oltre il 60%, dato che potrebbe da solo spiegare la più alta trasmissibilità di Omicron. Ulteriori studi sono comunque necessari per chiarire meglio se e quanto omicron possa avvantaggiarsi rispetto alle altre varianti, in virtù di una propria intrinseca capacità di propagarsi più efficientemente all’interno del singolo individuo e da un individuo all’altro. A tale proposito, è stato recentemente dimostrato da studi condotti ad Hong Kong e in Inghilterra che omicron si replica nel tessuto bronchiale molto più rapidamente di Delta (fino a 70 volte di più) e delle varianti originali del virus, ma molto più lentamente nel polmone. Questa osservazione rende in parte ragione della differenza dei sintomi, con manifestazione più frequente di mal di gola e raffreddore nell’infezione da Omicron, ma con minore incidenza di alterazioni del gusto e dell’olfatto, tipiche delle infezioni con le varianti precedenti.

I dati disponibili indicano anche che il tempo di incubazione dell’infezione risulta più corto rispetto a Delta e alle altre precedenti varianti (periodo di incubazione medio di 3 giorni per Omicron, 4 per Delta, 5 per Alfa e 5-6 giorni per il ceppo originale di Wuhan).

Alla capacità di Omicron di evadere efficientemente dal controllo del sistema immunitario è da ascrivere anche la frequenza più elevata di re-infezioni rispetto alle varianti Delta e Alfa. Il rischio di reinfezione è stato calcolato da 5,4 a 16 volte più alto a paragone di delta in Inghilterra e simili dati sono stati riportati anche in Danimarca, Israele, Sud Africa e Qatar.

Quindi i dati finora pubblicati confermano in modo univoco che Omicron sia più trasmissibile delle altre varianti, fatto ulteriormente indicato dall’evidenza che omicron sia riuscito in tempi brevissimi a soppiantare completamente la variante delta nelle regioni del mondo in cui si è diffuso, diventando rapidamente l’unica variante presente.

La patogenicità di Omicron
Paragoni condotti fra diverse varianti di SARS-Cov-2 utilizzando dati retrospettivi derivati da periodi pandemici distinti, quando predominavano varianti differenti, potrebbero essere molto condizionati dai diversi livelli di immunizzazione della popolazione, conseguenza sia del numero differente di precedenti infezioni e sia del differente livello di copertura vaccinale. E’ ovvio che la protezione contro l’evoluzione severa dell’infezione e la morte sarà tanto maggiore quanto più la popolazione studiata sarà di base protetta, grazie ad una maggiore efficacia di un sistema immunitario già predisposto a combattere il virus, essendo precedentemente venuto in contatto con il virus stesso o con parti della sua struttura, come nel caso della vaccinazione. Pertanto, se si paragonano dati ottenuti su una determinata variante, come Omicron, a fine 2021/inizio 2022, con dati ottenuti invece a fine 2020/inizio 2021 il differente rischio di evoluzione severa dell’infezione riscontrabile nei due periodi potrebbe essere totalmente giustificabile, o quanto meno parzialmente spiegabile, in base al diverso livello di immunizzazione contro SARS-Cov-2 nei due periodi, cioè minor numero di pregresse infezioni guarite e di cicli vaccinali condotti a termine nel primo rispetto al secondo periodo esaminato. Pur con questo limite, tutti gli studi finora condotti in Sud Africa, Inghilterra e Scozia concordano nell’indicare un minor livello di ospedalizzazione, di accesso in terapia intensiva, di ventilazione meccanica e di morte nei pazienti infettati da omicron rispetto a quelli infettati da delta. Inoltre, un recente studio statunitense, fornisce un elemento in più di valutazione, mostrando come la gravità di infezione delta non cambi anche se si paragona il periodo di novembre 2021, immediatamente precedente l’avvento di Omicron, rispetto al periodo precedente di inizio 2021, come invece avrebbe dovuto essere se un diverso grado di protezione immunologica legata ai diversi periodi pandemici analizzati avesse rilevanza.

Infine, la minore patogenicità di Omicron è anche suggerita da studi di laboratorio che mostrano una diversa modalità di ingresso di Omicron nelle cellule delle vie aeree, una minore capacità della variante di determinare danno diretto delle cellule infettate (soprattutto a livello del polmone) e di antagonizzare l’effetto di un importante mediatore di protezione, quale l’interferone, rimanendo quindi più sensibile di delta all’effetto anti-virale di questo mediatore dell’immunità innata. Alla stessa conclusione di una minore severità di malattia indotta da Omicron hanno condotto anche gli studi eseguiti su due modelli animali distinti, topo e criceto, anche se si tratta di modelli che potrebbero riflettere solo parzialmente la situazione dell’infezione umana. Quello che sembra possibile concludere oggi alla luce dei dati disponibili è che Omicron abbia una minore aggressività rispetto a delta, ma questo non significa che le infezioni causate da Omicron siano in assoluto blande. Per esempio, la percentuale di soggetti giovani sotto i 20 anni ospedalizzati nel corso della quarta ondata sostenuta da Omicron è maggiore rispetto a quanto osservato nella terza ondata e la percentuale di infezioni severe in questa popolazione di infettati più giovani rimane consistente (per esempio, attorno al 20% dei pazienti ospedalizzati in Sud Africa). Possiamo immaginare da questo, ciò che sarebbe potuto succedere se questa variante si fosse diffusa fin dall’inizio della pandemia, quando il nostro sistema immunitario era del tutto impreparato a far fronte a questo nuovo coronavirus e soprattutto non esistevano ancora i vaccini.

Il vaccino resta essenziale
La vaccinazione è sempre fondamentale perché gli attuali vaccini mantengono un’elevata capacità proteggente nei confronti delle infezioni severe, che è l’effetto principale che un vaccino deve garantire. La maggior parte degli studi di laboratorio riportano un calo significativo anche dopo la terza dose di vaccino dei titoli di anticorpi capaci di neutralizzare Omicron (anche superiore in alcuni casi a 10 volte, livello che potrebbe considerarsi la soglia, sia pure approssimativa, della quantità di anticorpi necessari per dare protezione in vivo), mostrando quindi un calo significativo dell’attività dei linfociti B, responsabili della produzione anticorpale. Ma di estrema importanza è l’evidenza che più dell’80% delle risposte T linfocitarie indotte dalla vaccinazione sono mantenute anche contro Omicron. Questo dato spiega, almeno in parte, perché l’effetto della vaccinazione contro le forme severe di infezione sia in gran parte conservato (a livelli variabili fra il 55 e l’85%, per lo più oltre l’80% dopo dose booster). Infatti, i linfociti T, in particolare quella sottopolazione definita CD8 citotossica, non è efficiente quanto gli anticorpi nel prevenire l’infezione, ma è invece essenziale per prevenire la diffusione del virus all’interno dell’organo infettato, una volta che il virus lo abbia raggiunto, limitando il numero di cellule che vanno incontro ad infezione e quindi bloccando la progressione del danno d’organo.

Le prospettive
Anche in una eventuale situazione endemica, cioè di presenza costante del virus in una certa area geografica, ci si dovrà comunque aspettare ondate epidemiche di riaccensione dell’infezione, la cui periodicità ed entità potrà variare in base al tempo necessario perché la popolazione diventi nuovamente suscettibile di infezione. E questo potrà dipendere dall’evoluzione nel tempo delle caratteristiche del virus, in particolare dall’acquisizione di nuove mutazioni che lo rendano resistente al controllo del sistema immunitario e dalla perdita graduale nel tempo di livelli sufficienti di immunità proteggente. Anche la suscettibilità all’infezione da parte dei nuovi nati privi di immunità contro il virus potrà avere un suo peso.

La probabilità meno plausibile per il prossimo futuro è che l’infezione e la vaccinazione inducano un’immunità proteggente che duri tutta la vita, come per esempio per il morbillo, per cui la circolazione del virus venga mantenuta solo nei nuovi nati. Questo implicherebbe che il virus non riuscisse ad evadere dal controllo immunitario, ma sappiamo già che questo non è il caso di SARS-Cov-2. Lo scenario più probabile è invece che il calo progressivo dell’immunità proteggente e l’emergenza di nuove varianti capaci di sfuggire in parte al controllo immunitario continuino a causare grandi numeri di infezioni, ma con sintomi attenuati grazie alla protezione indotta da infezioni precedenti o dalla vaccinazione. La comparsa di nuovi ceppi di virus capaci di sfuggire al sistema immunitario potrebbe essere più o meno rapida e più o meno completa la loro capacità di evadere il controllo immunitario. Potrebbe delinearsi quindi uno scenario simile a quello determinato dal virus dell’influenza A che tende a causare epidemie stagionali con possibilità di infezioni gravi, oppure uno scenario più simile a quello dell’influenza B con una più lenta evasione dal controllo immune e possibilità che la trasmissione sia prevalentemente sostenuta dall’infezione nei bambini. In relazione a questi scenari, si potrà capire se il vaccino richiederà di essere “aggiornato” ogni uno o due anni oppure meno frequentemente. Ma purtroppo, non si può neppure escludere che nuove varianti più aggressive possano emergere come conseguenza dell’elevata capacità di SARS-COV-2 di andare incontro a mutazioni, capacità che sembra essere più elevata (almeno del 50% in più) rispetto a quanto inizialmente calcolato. Per essere sicuri che quest’ultimo scenario non si realizzi, la strategia unica da attuare oggi è di vaccinare il più possibile, intanto che il vaccino risulta altamente efficace contro le varianti esistenti, Omicron compreso.