Come cominciò l'incubo
Due anni fa il primo paziente Covid a Parma
Era il 23 febbraio di due anni fa quando - ricorda Sandra Rossi, direttrice della prima anestesia e rianimazione dell'ospedale Maggiore - arrivò una telefonata da Massimo Nolli, direttore della rianimazione dell'ospedale di Piacenza.
«Un giorno che non dimenticherò facilmente. Eravamo tutti al lavoro, nonostante fosse domenica, per preparare il triage respiratorio». Tre giorni prima era stato ricoverato il «paziente uno» a Codogno, ci si preparava ad affrontare un'epidemia. Anche se pochi ne avevano compreso la portata.
«Nolli spiegò di avere un contagiato Covid, ma di non essere pronto ad accoglierlo, chiese il nostro aiuto e il malato, un settantenne di Lodi, fu subito trasferito a Parma», dice ancora Rossi. Due ore dopo, sempre da Piacenza, un altro contagiato. Il primo morì tre giorni dopo, il secondo sopravvisse.
Era l'inizio di un'ondata travolgente, l'inizio della pandemia anche a Parma. Di lì a poche settimane la terapia intensiva del Maggiore avrebbe ospitato 54 malati Covid. «Una cosa immane, un periodo "eroico". Poi sono arrivate le altre tre ondate, la fatica perdurante. Anni vissuti con intensità e con la necessità di fare appello a tutte le forze», dice Rossi.
Un'ondata simile a quella che travolse anche la terapia intensiva dell'ospedale di Vaio.
«Il primo paziente, un anziano di Busseto, arrivò il 24 febbraio e altri ne seguirono, sempre dalla Bassa, una zona con frequenti scambi con il Piacentino, fra i primi territori investiti dalla pandemia» ricorda Luca Cantadori, direttore dell'Anestesia e rianimazione dell'ospedale di Vaio.
In breve il reparto viene riorganizzato, i sette posti letto diventano 19. Fra metà marzo e metà aprile 2020 passeranno dalla rianimazione una settantina di malati Covid. Il 23 marzo, il pronto soccorso di Vaio è costretto a chiudere le porte: impossibile dare risposta a tutti gli infettati.
«Grande sorpresa iniziale e poi determinazione per cercare di affrontare al meglio la situazione - descrive Cantadori lo stato d'animo in quei giorni - Non era più lo stesso ospedale e non era più lo stesso modo di fare medicina».
Di quei giorni Michele Meschi, direttore della medicina interna dell'ospedale di Fidenza e, ad interim, della medicina interna dell'ospedale di Borgotaro, ricorda «il timore per qualcosa di assolutamente inedito, ma anche la solidarietà fra medici, colleghi di discipline differenti, infermieri, operatori socio sanitari. Tutti uniti per far fronte a un'apocalisse».
L'ospedale di Fidenza si trasforma, fra fine febbraio e inizio marzo 2020, in ospedale totalmente Covid, oltre 200 posti letto in tutti i reparti, gestiti non solo da internisti ma anche da cardiologi, anestesisti, chirurghi, neurologi e medici del territorio che vengono a dare manforte. Lo stesso è avvenuto al Maggiore di Parma, lo stesso avverrà all'ospedale di Borgotaro, 120 posti letto, e poi in quello di San Secondo.
I pazienti non Covid del territorio trovano accoglienza nelle case di cura e nelle strutture sanitarie private, anello insostituibile per far fronte all'emergenza. I medici di Fidenza, ricorda Michele Meschi, vengono a dare manforte anche all'ospedale di Parma nella primavera 2021, occupandosi dei malati in degenza nell'ex pediatria. Oggi a Vaio restano 32 posti letto per malati Covid lievi.
Si riorganizza in tempi rapidi, sull'onda d'urto dei contagi, anche l'ospedale Maggiore. Il primo paziente del padiglione Barbieri (che diventerà a breve il Covid hospital cittadino) arriva il 27 febbraio, ricorda Tiziana Meschi, direttrice del reparto. Il terzo piano si riempie in pochi giorni, poi è la volta del secondo, del primo, del piano terra.
E non basta, viene occupato il padiglione dell'ex pediatria, e poi l'ortopedia e la Torre delle medicine. «A fine marzo avevamo 730 malati Covid in ospedale. Il 25 marzo facemmo 72 ricoveri in una notte - ricorda Tiziana Meschi -. Pensavamo di avere a che fare con semplici polmoniti, ci siamo trovati davanti a polmoniti interstiziali gravissime, a pazienti che peggioravano, e morivano, repentinamente».
Arriva in ospedale un container per le salme: le camere mortuarie non bastano. Il 26 marzo il premier Conte rivolge ai parmigiani un appello al senso di responsabilità: state a casa, per favore.
Anche i medici del territorio, a fine febbraio, ancora non capiscono la portata di quello che sta per accadere, ma non si tirano indietro e affrontano il virus a mani nude: «Non trovavo mascherine, una la pagai 15 euro», ricorda Mario Scali, della medicina di gruppo San Lazzaro. Sarà presto contagiato, Scali: 23 giorni di ricovero e una lunga convalescenza.
«La prima ondata l'ho trascorsa così, in ospedale e a casa. Mi è sembrata una guerra, con la privazione della libertà, la tristezza, la solitudine. Non ho mai avuto paura di morire, neanche sotto il casco, sono sempre stato fiducioso che il giorno dopo sarei migliorato. Però penso spesso ai colleghi e ai pazienti che non ce l'hanno fatta. E a volte mi sento in colpa per essere sopravvissuto».