Storica sentenza
Il figlio di Quarantelli: «Onorata la memoria di papà»
«Ci descriveva il senso del pericolo, i controlli, la disumanità per cui se ti fermavi un attimo potevano fucilarti, i fatti più inenarrabili, la fame perenne e le angherie subite. Ne parlava un po’ e poi si fermava, non approfondiva: nel suo passato c’era come una barriera, ma io lo comprendevo, perché quei prigionieri erano sottoposti a trattamenti incredibili».
Nel delineare la storia di suo padre Gianni, rinchiuso a Oechlitz-Merseburg, tra il settembre del 1943 al giugno del 1945, Atos Quarantelli ricorda i dettagli di quei «piccoli racconti» della guerra, che l’anziano genitore, scomparso nel gennaio 2017, faticosamente aveva tenuto insieme. Milite dei pontieri della sezione di Roncole, fu catturato dai tedeschi sul fronte greco e ora il tribunale civile di Parma ha condannato la Repubblica federale di Germania al risarcimento di 100mila euro (oltre agli interessi maturati dal 30 gennaio 2013) a favore dei figli Atos e Giorgio, che dopo aver saputo di una vicenda simile a quella del padre, si erano rivolti all’avvocato Federico Silvestrini per capire se quella deportazione fosse effettivamente l’esito di un crimine di guerra. E così è stato, visto che il giudice Marco Vittoria ha riconosciuto che Quarantelli, ridotto in schiavitù, «fu vittima di un crimine che lede il diritto inviolabile alla conservazione della dignità personale e dell’integrità fisica, senza la sussistenza di una comprovata causa di giustificazione nota al diritto internazionale».
«Sarei stato più felice di leggergli questa sentenza da vivo», aggiunge ancora Atos che, dal 1985, per fare altri passi avanti, ha cercato e tenuto documenti, il foglio di immatricolazione che il padre aveva conservato, così come il libretto di lavoro con i timbri.
«Il risarcimento agli internati militari italiani da parte del governo tedesco è una querelle che dura da tempo - spiega Marco Minardi, direttore e responsabile scientifico dell’Istituto storico della Resistenza e dell’Età contemporanea di Parma -. Nei primi anni 2000 c’era stata una raccolta di richieste da parte degli enti pubblici e delle associazioni per fare queste domande, ma la Germania non se ne fece carico, ritenendola una partita chiusa, visto che mancavano gli estremi e non c’era la possibilità di verificare tutte le richieste. Venne quindi costituita la Commissione storica italo-tedesca, in cui i fondi avrebbero finanziato progetti per il futuro per una memoria e un approccio condivisi ai problemi causati dalla guerra».
Come confermato da Domenico Vitale, ricercatore di Isrec, gli Imi erano circa 700-800mila ed erano principalmente «italiani catturati nel settembre ‘43, che scelsero la prigionia piuttosto che combattere al fianco dei tedeschi, che, per questi motivi, diedero loro uno status diverso rispetto ai prigionieri di guerra»: «I tedeschi inventarono questa condizione per non garantire loro i diritti della convenzione di Ginevra. Vennero trattati molto peggio degli altri prigionieri». Per Minardi, anche se la sentenza può sembrare più un atto simbolico, in realtà serve a «restituire dignità a queste persone che, per decenni, erano solo vittime per loro stessi ma nessuno le riconosceva come tali». «Questo è un modo per restituire loro un ruolo, fanno parte della storia». Anche l’avvocato Silvestrini conosce la complessità della questione: «È problematico riuscire ad agire: servirebbe un intervento dell'Italia, con un accordo specifico, visto che ormai sono tanti e diversi i casi. Credo che comunque un’azione esecutiva, seppur complicata, andrebbe proposta. Il nodo non è ancora risolto, ma ci lavoriamo. Forse andrebbe costituito un comitato, che potrebbe rappresentare una soluzione: raccordandoci tutti avremmo più peso ed efficacia».