Reportage
Nella scuola rifugio tra mamme e bambini in fuga dalla guerra
ZAHONY (frontiera Ungheria-Ucraina) Lacrime. Sangue da qui non se ne vede. Ma lacrime tante, e di sangue ne racchiudono un fiume. Piange Miklòs Lesku, insegnante dell'istituto tecnico di Zahony trasformato in ostello per i profughi: troppi ne ha visti passare in pochi giorni e anche uno solo sarebbe stato di troppo. Piange Marianna Paliocsi, sua collega che ora ha in casa una 19enne di Kiev («Una nuova figlia»), dopo averne ospitati una dozzina nei primi giorni dell'esodo. Da varco di frontiera, Zahony è diventato avamposto della solidarietà. Fino al 24 febbraio, faceva 4.300 abitanti. Ora, la sua gente è più raddoppiata, e i duecento che si aggiungono ogni giorno mancano di tutto, a cominciare dai documenti. Qui, procurano loro le carte provvisorie per il primo mese, quelle che danno diritto anche all'assistenza sanitaria. Ottenute quelle più a lunga scadenza, potranno proseguire il viaggio: con lo sguardo rivolto all'indietro, in attesa di notizie o nella speranza di non averne da altri, quando si è lasciato in Ucraina un marito, un padre o un figlio. In genere, sono i più poveri a essere privi anche dei documenti. I più malati, quelli che con sé trascinano un odore di miseria ben più pesante dei trolley della fuga.
Le 88 brande in palestra
La scuola di Miklòs ne contiene 250, 88 stipati in palestra. Una branda da campo accanto all'altra, in un'esaltazione geometrica della solidarietà. Già a vederlo vuoto, nel pomeriggio, lo spazio dà un'idea di agorafobia claustrofobica, di promiscuità soffocante. Figuriamoci con il buio. Eppure, è di gran lunga meglio di una cantina sotto un soffitto tremante per le bombe. Di giorno restano pochi in palestra. Ora ci sono una nonna, un bambino di un paio d'anni e un gatto che esplora lo spazio, fiutando l'aria spaesato. Troppi odori, troppe case sovrapposte. Rotola tra le brande un rigido pallone a spicchi. Il piccolo, caracollante, lo raccoglie per portarlo indietro. La nonna lo rilancia. E così via. Tanto per impegnare il bimbo, nella speranza che non si metta a chiedere del papà. Se ne ha uno ancora vivo, è oltre a un confine che ora vale un abisso. Confine oltre al quale volano bombe e pallottole.
Femmine e maschi vengono separati, fanno sapere. L'ultimo dei problemi: di maschi che non siano minorenni o anziani non se ne vede. Basta poco spazio per ospitare chi non sia donna. E così molte giovani indossano abiti di taglia e taglio maschili. C'è solo l'imbarazzo della scelta: ce ne sono in abbondanza, appesi alle grucce all'esterno delle aule, dove in tempo di pace gli studenti lasciano i giacconi. «Ora i nostri ragazzi studiano online» spiega Marianna. Dopo quella da Covid, la Dad bellica.
Il ricordo del 1956
Incomprensibili le scritte sul cartello esplicativo del monumento a una trentina di metri dalla scuola. Corone tricolori addobbano il cippo che accompagna un paio di rotaie divelte. Il monumento è questo. Sono le cifre a spiegare anche allo sguardo di chi non capisce il magiaro. Spicca quel 1956 impresso nella storia dai cingoli dei carri armati inviati da Kruscev. Il passato che ancora ringhia dietro l'angolo, oltre il fiume Tissa, il sottile confine naturale dell'Unione Europea (o comunque di chi vi aspira) e la Disunione Sovietica.
Di qua dal ponte, poliziotti sornioni, pistola in fondina. Di là, in Ucraina, guardie armate davvero. E qui, quando si parla di armi, si intende dal kalashnikov in su. «Sono così anche in tempo di pace» spiega Tamas Marghescu, direttore generale dell'International Council for Game and Wildlife Conservation. È lui ad accompagnarci con il sindaco Lazlo Helmeori sulla riva del fiume. «Siamo oltre i posti di guardia - sorride, guardando in alto - ma non proprio oltre la frontiera che è a metà ponte». Ottocento metri a monte, un altro viadotto, sempre di ferro: vi transitano i treni che ogni giorno portano la metà dei cinquemila rifugiati quotidiani in transito da Zahony. «Il nostro Paese - spiega Miklòs - ormai ne ha accolto mezzo milione: dopo la Polonia, è l'Ungheria a ospitarne di più». E ora, più che su Varsavia, l'ombra della tragedia di Mariupol si allunga su Budapest.
Zahony, per quanto minuscola, finora è riuscita ad affrontare i flussi dai quali è stata attraversata. «Anche noi siamo scesi in guerra, per l'umanità - spiega il sindaco - schierando un esercito di trecento volenterosi. Quanto siamo riusciti a fare non sarebbe possibile senza di loro». E senza di lui che dà l'esempio, rimbalzando da un lato all'altro del paese, pronto anche a sostituire la bombola del gas del fungo che riscalda il tendone allestito dai bergamaschi di Cesvi. Sindaco da frontiera, sindaco da prima linea Lazlo, 53enne informatico. Due ore di sonno per notte da quando con la guerra è divampata l'emergenza. Presto deve correre altrove. Intanto Tamas deve tornare a impugnare il bastone al paiolo del gulash. Lo fa così buono che per un attimo i profughi s'illudono d'essere al ristorante. «Deve cuocere tra le 3 alle 4 ore: il segreto è tutto qui» sorride lui.
Disertori a nuoto
Zahony e i suoi ponti. Non tutti però li percorrono per sfuggire alla guerra. C'è chi ci passa sotto. L'altra notte l'hanno fatto due 25enni. In calzoncini corti e maglietta hanno attraversato a nuoto il Tissa torbido e infido: temperatura dell'acqua sette gradi, mentre l'aria con il buio va ancora sotto zero. I ragazzi sono stati accolti come tutti gli altri di qua dal confine. Asciugati, scaldati, vestiti e rifocillati. Chi se lo può permettere, invece, diserta all'asciutto, chiudendo gli occhi alle guardie ucraine con spessi strati di banconote. Ora servono diecimila dollari. Fino a una settimana fa, ne bastava la metà. Brutto segno.
Facile che abbia pagato il tizio dal capo coperto da un cappuccio seduto sul sedile posteriore di una Renault proveniente di là dal confine. Al volante una donna che guida nervosa. Accanto a lei, una bambina. Strana distribuzione dei posti... L'auto ne segue un'altra con a bordo una zia, una nipote e, dietro, una nonna appena strappata dai campi e un bambino. La donna alla guida cerca la stazione. «Lì ho l'appuntamento con mia sorella in arrivo dalla Finlandia, per ripartire con loro» dice lei. E poi? «Torno a casa, al paese: c'è troppa gente da aiutare». E le bombe? Non cadono lì? «Finora no» fa la donna con un sorriso rassegnato, prima di augurare buona fortuna alla pace.
E se qualcuno, senza risorse, allergico all'acqua e al freddo e ancora di più alle armi, prendesse il ponte d'infilata, per sfuggire alla guerra? «La Cortina di ferro - ricorda Tamas - aveva un bel po' di guardie armate sparse lungo i confini. Quando vedevano qualcuno fuggire, i nostri erano molto bravi a sparare al cielo. Anche gli ucraini sono di questa scuola... A prendere bene la mira erano i tedeschi al muro di Berlino».