Reportage

In viaggio sul treno dei profughi ucraini

Roberto Longoni

Zàhony-Budapest

«Loro partono, loro tornano». Sull’Intercity che la porta via dalla sua terra, Ina sale con una stretta al cuore e un accenno di sorriso. A ispirarglielo sono le rondini disegnate all’interno dei vagoni riservati ai profughi. Ogni treno diretto a Budapest ha carrozze così in coda, all’estremità orientale. Quasi riproponesse un confine mobile tra Ungheria e Ucraina. In testa, la parte per i passeggeri paganti; in fondo, quella per chi fugge dalla guerra: donne, bambini e anziani saliti con tagliandi offerti dalle ferrovie ungheresi, ma costosi quanto possono essere i biglietti di sola andata. Almeno le rondini in viaggio con gli sfollati evocano il ritorno, una nuova stagione. I vagoni per i profughi sono stati ridotti: ora sono solo due e nemmeno pieni, anche se i passeggeri tendono a concentrarsi. «Ci siamo abituati allo stretto dei rifugi» mormora un vecchio di Kharkiv. Non sorride, forse dice sul serio. Sono le 8,40, si parte.

«Sembrava impossibile»

Ina ha 37 anni e con la figlia Alina, di 14, è diretta in Inghilterra. Ci arriverà con uno dei voli offerti da una compagnia aerea (ma per il bagaglio ha speso una 70ina d'euro). Viaggia con Alina, ma senza il marito che, pur se inabile all’uso delle armi, è stato trattenuto, per compiti civili. Lei, ragioniera, amministrava un’agenzia impegnata nel sociale («So quanti aiuti ci sono stati inviati dall’Occidente: vi saremo sempre grati» dice). Fatica a sollevare il trolley-forziere da espatriata, ma portarne due più piccoli sarebbe costato ancora di più. Fatica non solo per la schiena fragile dopo un incidente. Il trolley sarà
sì e no di una dozzina di chili, ma lei lo trova pesantissimo. Mai, però, come ricordare: lei lo fa versando lacrime. E allora la figlia, timida e silenziosa, bella come un’attrice d’altri tempi, le allunga carezze o abbracci: la protegge, quasi fosse lei l’adulta delle due.

Ina abitava a Irpin, da dove è fuggita per Zhitomyr il 3 marzo, un giovedì: su quella stessa strada domenica una famiglia sarebbe stata sterminata dalla granata di un mortaio. L’incubo era cominciato il 24 febbraio, all’ora più consona. «Alle 5 chiamò mio marito - racconta lei -. “Hanno dato il via agli attacchi” disse. Non volevo credergli: aprii la finestra e sentii lo spostamento d’aria di un’esplosione». I russi bombardavano una base militare vicina. Lei provò comunque a illudersi che fosse un’esercitazione. Allo scoppio seguente s’arrese all’evidenza. «Mio marito era sulla riva est del Dnepr. Per fortuna riuscì a passare il fiume, così come milioni di concittadini in fuga. Il primo giorno, lo choc fu tale da provocare vomito e diarrea in tanti». Era cominciata la vita nei rifugi. Per Ina durò fino a quando le bombe non centrarono anche l’ospedale e la scuola della figlia, che intanto studiava a distanza, nel rifugio. «Allora ci trasferimmo da mia nonna, a Zhitomyr».

Dal bunker alla cantina

Qui cominciò la vita in cantina: meno protetti, ma almeno più lontani dagli obiettivi dei russi. La nonna non reagiva alle sirene puntuali ogni giorno alle 20, alle 21 e alle 22 e poi alle 4, alle 5 e alle 6. Non poteva, costretta a letto da una malattia, e forse nemmeno voleva. Si stava replicando il suo trauma originale, di quando era venuta al mondo il 22 giugno del 1941, al confine con la Bielorussia. «Lo stesso giorno in cui i tedeschi scatenarono l’attacco all’Unione sovietica. Sua madre la portò subito nella foresta, dove rimase nascosta per quattro anni. I primi ricordi di mia nonna sono alberi ed edifici bruciati».

In quella casa fuori città hanno trovato posto in nove. Tra loro, la sorella di Ina, con un figlio di tre anni. «Ci informavamo su Internet, che non è mai mancato, mentre la corrente sì e il gas anche. Seguivamo i media ucraini, occidentali e russi. Da questi abbiamo scoperto che Mosca ci stava bombardando per “proteggerci” da noi stessi. Assurdo? Tuttavia, la propaganda russa sa essere convincente, più di quella occidentale. Tanto che una mia zia su Facebook mi ha scritto di non volerne più sapere di me. Una cugina che vive in Crimea all’inizio mi accusava: “Voi di Kiev...”. Era al cento per cento dalla parte di Mosca. Ora cerca di informarsi: qualche dubbio le sta venendo». E qualche dubbio di opportunità viene a Ina, come a tanti ucraini che si sono sempre espressi in russo. «Non ci siamo mai posti il problema - sottolinea -. È Putin, ora, con quello che sta facendo, a provocare il rifiuto della gente di parlare la sua stessa lingua».

La favola al bambino

Tra missili e allarmi era impossibile dormire anche a Zhitomyr. «Distrutti dal sonno, non si sapeva più se si era in cantina o fuori. Ovunque faceva freddo, anche se per fortuna cibo e acqua non ci sono mai mancati. Cercavamo di proteggere il figlio di mia sorella. Lei gli raccontava che due regni fantastici si scontravano a colpi di fuochi d’artificio». Il piccolo ascoltava a bocca aperta. Ma, le poche volte che veniva portato per strada, raccomandava di fare attenzione a bombe e mine. Come quelli della bisnonna, anche i primi ricordi di questo figlio del 21esimo secolo inoltrato saranno edifici devastati, anneriti dal fuoco.

Troppo rischioso restare a Zhitomyr, dove un missile è caduto anche pochi giorni fa. Ina e Alina si sono trasferite a sud, in Transcarpazia, regione finora risparmiata dalla guerra. Qui sono state accolte da una famiglia con altri dodici sfollati. «Intanto – prosegue lei – un amico di mio marito in Inghilterra si è impegnato a farci avere il visto. Ci metterà a disposizione la casa. Cercheremo di imparare bene l’inglese e io spero di riuscire a lavorare. Forse ci riuscirò presto, grazie a un progetto di smartworking».

Inutile chiederle se abbia bisogno d’aiuto. I soldi hanno il brutto vizio di finire, specie quando non si lavora e ancora di più quando si lascia la propria terra. Vano insistere, aggiungendo che chiunque potrebbe essere al suo posto. Ina assicura di avere il necessario. Per il pranzo, i due panini (già ha fatto fatica ad accettare quelli) offerti a lei e alla figlia dai volontari a Zàhony, arrivata con il treno da Čop. Alla cena penserà poi in Inghilterra, dopo essere decollata alle 19 da Debrecen, a metà della tratta ferroviaria per Budapest. Aspettare tutto il giorno in aeroporto non sarà un problema. «La mia vita sarà tutta un'attesa, fino a quando non potrò tornare - dice di nuovo tra le lacrime -. Le esperienze più dure non sono stati i bombardamenti, ma lasciare la casa, la nonna, i genitori, salutare mio marito. Penso solo a tornare». C'è chi già lo fa, nelle zone più tranquille, abbandonate quando sembrava che tutto il Paese dovesse essere travolto. «Chi è rimasto vuole andarsene e chi non ha la casa distrutta vorrebbe rientrare». Una guerra nella guerra: tra istinto di sopravvivenza e nostalgia.

Il lungo abbraccio

A Debrecen Ina e la figlia scendono. Anche solo aiutarla con i bagagli suscita una riconoscenza calorosa. O è forse l'effetto delle lacrime condivise, di un ascolto doloroso quanto le domande. L'abbraccio non è di circostanza. «Che sia presto la pace - aggiunge Ina -. Noi non volevamo tutto questo». Con Alina si allontana verso le scale del sottopasso, quasi trascinata giù dal trolley pesante come una condanna.

Staccata la motrice a traino del convoglio, da Debrecen in poi, il vetro della porta di coda si affaccia sulle rotaie. Anche qui, disegni di rondini su un filo, pronte a spiccare il volo. Complice la pianura a perdita d'occhio, sembra che il treno lasci abissi dietro di sé. Si fugge verso occidente. E intanto i binari retti e infiniti legano all'Ucraina come un cordone ombelicale d'acciaio. Katerina non riesce a distogliere lo sguardo. Viene da Kharkiv, come la maggior parte dei profughi a bordo. Ha vent'anni ed è già quasi laureata in Turismo, settore nel quale lavora da tempo: sei mesi in Turchia con i russi, sei mesi in Egitto con gli ucraini. Inoltre, è traduttrice per un'associazione di medici. «Con le amiche continuo a sognare il viaggio in Italia - sorride - ma ogni anno succede qualcosa». Il coronavirus prima, la guerra ora. Non sono solo le vacanze a saltare: Katerina non lavora più. E nemmeno i suoi, con i quali ha affrontato queste settimane. Tutto a Kharkiv è fermo, tranne i supermercati e la logistica per rifornirli. La madre bancaria è a casa (o nel rifugio) dall'inizio del conflitto, e così il padre dipendente di una fabbrica di etichette. Bisogna tirare avanti. Così, Katerina ha preso il treno, impiegando ben 33 ore per raggiungere Uzgorod. Poi Čop e da qui Zàhony (per il breve tratto transfrontaliero ha pagato 3 euro; mentre per il resto del viaggio nulla), per fermarsi 80 chilometri prima di Budapest. «Lì ho amici operai. Forse mi trovano un posto. Ma presto tornerò, presto l'Ucraina avrà vinto, indipendentemente da tutto e da tutti».

L'abitudine alle bombe

I suoi vent'anni le permettono di guardare al futuro con ottimismo e al passato con più leggerezza, nonostante la sua città sia tra le più colpite. Anche ora: troppo vicina al Donbass, troppo strategica «Le prime due settimane è stato terribile - racconta -. Ma poi ci abbiamo fatto l'abitudine». Così come a mettere in pratica il principio delle due pareti ai lati: se proprio non riesci a scendere nel bunker, stai in corridoio. Presto ha imparato a riconoscere se il missile viene o se invece va. «C'è chi ci ha inventato una barzelletta. Uno chiede: “È per noi o da noi?” E l'altro gli risponde: “Che te ne frega: dormi”». Anche il suo quartiere, nella zona sudorientale della città, è stato bombardato, nonostante sia tra quelli meno nel mirino dei russi. «Svegliarsi alle 5 tra le esplosioni: non posso dire di essere stata sorpresa, ma choccata sì. Sono stati colpiti scuole e ospedali, sono stati commessi eccidi. Bucha, Irpin, Mariupol devastate... Izum non esiste più. E tutti i territori minati. Peggio della Seconda guerra mondiale, e ancora non abbiamo una cifra delle vittime. Sarà terribile saperlo». Ora la ragazza capisce l'avversione della nonna per i fuochi d'artificio.

Anche Katerina, come tutti in Ucraina, ha parenti in Russia. Anche lei racconta di un conflitto non solo tra stati. «Familiari che non sentivamo da vent'anni ci hanno scritto: “State bombardando i vostri fratelli. Maledetti”. Poi, più niente». Era una bambina, quando è cominciata la crisi del Donbass. «Posso solo dire che nessuno può sentirsi in diritto di pretendere territori di un altro Paese indipendente, riconosciuto da tutti. Sì, qualcuno, in quella regione, si dice separatista e filorusso: ma ripetono tutti le stesse formule. Sono come zombie, vittime della propaganda di Mosca». Anche per questo Katerina è certa della vittoria. «Trainandoli con i trattori, siamo perfino riusciti a rubare i carri armati ai russi. Un vecchio ha fatto sparire un camion carico di munizioni, per portarlo ai nostri soldati. Come possiamo perdere?»

Le parole e il silenzio

Anche l'abbraccio di Katerina non ha niente di formale. Scesa dal treno, ringrazia. «C'è bisogno di testimoniare: anche questo è importante per noi». Non tutti la pensano come lei. Una donna sulla settantina tiene per sé i propri pensieri. A tacere sono soprattutto gli anziani, quelli ai quali l'epoca sovietica ha insegnato che meno si dice meno si rischia. E così, Sergej, camionista 65enne di Kharkiv fa parlare innanzitutto il display del cellulare: scorrono le immagini di un appartamento distrutto da un razzo. «Il mio - spiega -. Ci siamo stati fino a pochi giorni prima, fino a quando non hanno cominciato a colpire sempre più vicino». A quel punto, Sergej e la moglie Olga, 40 anni, si sono trasferiti nell'appartamento di lei. «Poi, quando un missile ha centrato una casa a cento metri dalla nostra abbiamo deciso di partire, dopo gli ultimi nove giorni senza elettricità. Siamo diretti in Bulgaria, dove almeno non dovremmo avere problemi di lingua» allarga le braccia lei, madre di Denis, 9 anni. Vispo, uno sguardo che ispira subito simpatia, il bambino stringe l'orsacchiotto di peluche donato dai volontari a Zàhony. Ha l'aria del tipo che sa farsi rispettare dai coetanei: ci si sorprende a sentirlo raccontare che ha avuto paura. «Prima niente lo intimidiva» spiega Sergej, che subito gli ha insegnato a nascondersi sotto il divano. Il piccolo eseguiva, quando non si riusciva a raggiungere il rifugio. «Tremava la casa, tremava la terra...» ricorda Denis.

Fuga da Mariupol

Al ricordo del militare fatto a Mosca, Sergej smette di parlare. «Mai avrei immaginato» dice, prima di aggiungere che «il Donbass sta distruggendo l'Ucraina». Poi, più nulla. Ed è dal Donbass che viene Svetlana, 39 anni e 5 figli: la più grande di 18 anni, l'ultimo di 15 mesi. Ha impiegato sei giorni, per arrivare da Donetsk. Perché la partenza dopo otto anni di guerra? «Ora rischia di scatenarsi davvero l'inferno a casa nostra». Non sa nemmeno dove andare. Ovunque le offrano un tetto e un modo per tirare avanti: lei nemmeno a Donetsk lavorava, impegnata com'era nel ruolo di madre. Della guerra non sa che pensare. «Mi chiedo solo come sia possibile uccidere donne e bambini e scacciarci dalle nostre terre». Com'è possibile uccidere o costringere a uccidere bambini che solo per l'anagrafe sono adulti? Un ragazzo alto uno e 90, due spalle così, ma con il volto da fanciullo, ha 17 anni e 11 mesi. Prima che fosse troppo tardi, la madre è andata a recuperare lui e l'altro figlio 12enne. In tempo di pace, aveva lasciato entrambi a Mariupol, per andare con il marito a lavorare a Budapest. Se lui fosse rientrato in Ucraina, non avrebbe più avuto il permesso di uscire: così, è stata lei a raggiungere chissà come la città del sud sotto assedio da settimane. Piange al ricordo di ciò che ha visto e forse al pensiero dei nonni rimasti laggiù. Non vuole dire nulla. Racconta solo di essere fuggita dal centro devastato di Mariupol con i due figli, sotto un fitto tiro incrociato. Un miracolo. Incredibile pensare che tra un mese quel «bambino» dal volto d'angelo avrebbe dovuto imbracciare un kalashnikov. La guerra tutt'al più dovrebbe farla chi ha già vissuto, viene da dirle. «No è l'inferno per tutti. Non c'è niente di peggio». L'Intercity si ferma alla prima stazione di Budapest. Scesi sul marciapiede, la donna e i ragazzi non smettono di salutare, rondini spaesate. Non è questa la loro terra. Ma a casa è pieno inverno.

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