In fuga dalla guerra

«A Parma abbiamo ritrovato il calore di una casa»

Aliona ha 28 anni, le unghie perfettamente curate e lo sguardo mite. Diana, invece, di anni ne ha 23 e ha gli occhi un po’ più stanchi. Sono due amiche, sono entrambe di Kramators’k, città dell’Ucraina orientale nell’oblast’di Donec’k, e a Parma sono arrivate insieme il 25 marzo, dopo aver attraversato un intero Paese in conflitto, con i loro bambini, che hanno dai 4 ai 7 anni, la nonna di una delle due, qualche oggetto utile e i gatti.

Hanno raggiunto la Polonia e da lì, grazie a un casuale, quanto rischioso, passaggio in pulmino sono arrivate in città. Ora vivono insieme in un appartamento di via Musini, composto da camere, una saletta, la cucina, il bagno e un ingresso abbastanza ampio.

L’abitazione è stata messa a disposizione da una persona che l’ha data in comodato gratuito per cinque anni a Help for children Parma, dove i quattro bambini giocano composti insieme ai loro animali domestici e dove la quotidianità prova a riprendere il filo.

Giancarlo Veneri, già presidente e oggi segretario dell’associazione che le ha accolte, definisce «avventurosa» la procedura che ha portato le due ragazze qui in Italia.

«In generale, la situazione dei profughi ucraini è abbastanza caotica perché, nonostante la spinta emozionale e il fatto che nessuno vorrebbe porre barriere, dal punto di vista pratico esistono, invece, dei vincoli di legge, che sono anche normali in una situazione d’emergenza - ha spiegato Veneri, che si sta prendendo cura dei due nuclei familiari insieme a Gabriella Sirocchi, Mariella Bertolini, Manuela Bertoli (tutti consiglieri dell’associazione) -. In Ucraina i cittadini hanno la carta d’identità, mentre non è così scontato che tutti abbiano il passaporto (e, infatti, una delle due donne, al momento della fuga, non lo aveva). Arrivate a Leopoli, l’autista del piccolo convoglio che le ha portate al confine polacco ha stilato a mano, in ucraino, un elenco passeggeri e quando le ragazze sono arrivate alla dogana, il timbro d’ingresso in area Schengen di una delle due è stato fatto sul documento d’identità che, però, non viene riconosciuto subito dalla Questura. Perciò, tutti coloro che arrivano con questa procedura (e sono la maggioranza) devono rivolgersi all’ambasciata o ai consolati più vicini, affinché venga emesso un certificato che provi la loro identità, ma ci sono comunque criticità (soprattutto per quanto riguarda i benefici previsti perché è ancora complicato capire a chi verranno dati e come)».

I mariti di Aliona e Diana, che hanno 29 anni e sono due militari al fronte, sono rimasti in Ucraina, insieme ai genitori, che non hanno voluto lasciare il Paese.

«Riusciamo a sentirli al telefono e anche se a Kramators’k la situazione è molto tesa non ci dicono nulla per non farci preoccupare - conferma Aliona, che traduce le sue risposte con un’applicazione del cellulare, mentre i suoi due bambini, Dmitro e Maria (6 e 4 anni) la cercano e le chiedono qualche attenzione -. L’Ucraina mi manca molto e non avrei mai immaginato nella vita di vedere una guerra».

Anche per Diana e i suoi due figli lasciare il Paese è stato difficile: «I bambini sono ancora spaventati da ciò che hanno visto (le due ragazze sono andate via a conflitto iniziato, ndr): ce ne siamo andati poco prima dei bombardamenti, ma dopo tante forti esplosioni. Per Rostik e Vladik, che hanno 7 e 6 anni, è stato complicato salutare il papà e se io non avessi avuto loro non avrei mai lasciato l’Ucraina, dove spero di tornare presto».

«La nostra associazione fa accoglienza minori dalla Bielorussia e dal Saharawi da 25 anni - ha aggiunto Veneri -. Dopo la pandemia, speravamo di riprendere i nostri programmi e, dato che facciamo una serie di progetti con il Comune di Parma, a sostegno delle famiglie in condizioni di fragilità, con l’accordo di utilizzarlo in caso di bisogni emergenziali o per situazioni da tamponare. Poi è scoppiata la guerra e siccome questi due nuclei familiari avevano espresso il desiderio di rimanere uniti, avendo fatto tutto il percorso insieme, l’abitazione di via Musini risultava la sistemazione più adeguata (dopo una tappa a casa di alcuni conoscenti di una parente delle ragazze, che lavora qui da tanti anni). Al loro arrivo, dopo aver lavorato alle questioni burocratiche e alla ricerca della casa, abbiamo cercato di attivare un percorso psicologico, anche se la comunicazione è ancora difficile, perché le ragazze non conoscono né l’italiano, né l’inglese. Essere a migliaia di chilometri da casa, in una situazione in cui non riesci a comunicare, rende tutto molto complicato».

Giovanna Pavesi