Teatro Regio

L'opera di Weill: la provocazione che incuriosisce

«Ma se esiste questa Mahagonny, è solo perché tutto è cattiveria, perché non regna mai la pace, e neppure la concordia, e non c’è niente al mondo su cui confidar». Luogo di invenzione, ma neanche troppo, la «città-trappola» frutto dell’arte e dell’immaginazione di Kurt Weill e Bertolt Brecht, ha preso nelle sue maglie il Teatro Regio di Parma, destando le coscienze degli spettatori su tematiche che, pur figlie degli anni Venti-Trenta del Novecento, risultano ancora oggi quanto mai attuali.

Per la prima volta in scena nella nostra città, «Ascesa e caduta della città di Mahagonny» ha debuttato ieri sera nell’ambito della Stagione Lirica del Teatro Regio: un titolo che valeva la pena di riscoprire, per la ricchezza musicale e per la sapienza drammaturgica, messe a buon frutto dalla regia di Henning Brockhaus e dalla direzione musicale di Christopher Franklin.

Un po’ di poltrone e palchi vuoti sono stati il contraltare di questa scelta meritevole: il pubblico della lirica fatica a mettersi in gioco. Un peccato: se per affrontare l’opera serve un po’ di preparazione, quanto si riceve in cambio non è poco. «Ascesa e caduta della città di Mahagonny» è un congegno quanto mai complesso, fatto di venti scene, un cast nutrito di solisti, coro, orchestra, danzatori, videoproiezioni e una musica che attraversa i linguaggi più diversi, dal contrappunto al cabaret, dalla lirica al jazz, alla canzone popolare. Una ricchezza che però si colloca ben lontano da quello che Brecht definiva “teatro gastronomico”, che non ha cioè lo scopo di dare un piacere acritico al pubblico. Brockhaus riesce da questo punto di vista a realizzare un meccanismo perfetto, in cui tutto scorre con ritmi serrati ma spezzando l’illusione. I cambi delle scene, create da Margheria Palli e illuminate dalle luci di Pasquale Mari, avvengono davanti agli occhi del pubblico (tanto che Joe, appena “morto”, si rialza ed esce di scena sulle sue gambe), la quarta parete viene sfondata a più riprese. Sullo sfondo il mondo degli sfruttati, creati e nutriti dalla società che vive in primo piano. La varietà di stili caratterizza anche i costumi di Giancarlo Colis e le coreografie di Valentina Escobar. I video di Mario Spinaci sottolineano alcuni momenti, tra cui l’arrivo dell’uragano.

Buono nel complesso il cast, nonostante i cambi dell’ultimo minuto dovuti al Covid: in scena Alisa Kolosova una convincente Leokadja Begbick, Tobias Hächler (Jimmy Mahoney), Nadia Mchantaf, arrivata a Parma solo lunedì ma a suo agio nei panni di Jenny Hill, Chris Merritt (Fatty), Zoltan Nagy (Trinity Moses), Mathias Frey (Tobby Higgins e Jack O’Brien), Simon Schnorr (Bill), Jerzy Butryn (Joe), Roxana Herrera, Elizabeth Hertzberg, Yuliia Tkachenko, Cecilia Bernini, Kamelia Kader, Mariangela Marini (sei ragazze di Mahagonny), Filippo Lanzi (Un narratore). Davvero buone le prove dell’Orchestra dell’Emilia-Romagna «Arturo Toscanini» e del Coro del Teatro Regio di Parma, preparato dal maestro Martino Faggiani: le due compagini hanno saputo dare il meglio in una partitura che chiede continui cambiamenti di stile, malleabilità, prontezza, superando le non indifferenti difficoltà con onore.

Lucia Brighenti

I commenti nel foyer
Il pubblico, è smarrito di fronte alla presenza in cartellone di un titolo operistico tanto lungo quanto sconosciuto come «Ascesa e caduta della città di Mahagonny», ma alla fine è caduto nella ragnatela seducente di questo poco convenzionale capolavoro novecentesco, anche se per i verdiani è stato un boccone duro da digerire. Se è mancato il pubblico, non sono mancanti gli applausi ieri sera per l’ardita operazione che ha portato il titolo tedesco tra i velluti del Regio. Il ritmo dondolante dello swing della partitura, mescolato a pagine di rigore formale ha lasciato un po’ confusi gli spettatori privi di riferimenti di fronte a questa musica. La complessità dello spettacolo, al limite del musical, ha fornito diversi spunti di discussione nel foyer. Fernanda, Cristina e Pier dicono di essere «perplesse. Sembra un’operetta, uno spettacolo da vedere, ma in un teatro di prosa. Poi c’è lo scoglio della lingua. Comunque è giusto proporlo, non possiamo sempre vedere le stesse opere». Per Artemio Cabassi «la musica è stupenda ma lo spettacolo è vecchio e fatto con roba brutta. Peccato perché loro sono bravissimi». Per Matteo Curti «spettacolo bellissimo ma va fatto a Teatro Due non al Regio. Non vai al mare in smoking! Chi ama la lirica è deluso. Vorremmo vedere Verdi in allestimento classico in stagione. Se no lo piazzi nel Festival come apertura d’orizzonte musicale ma non qui. Il cast è comunque molto bravo». Paola dice che ha «apprezzato il mezzosoprano con la sua vocalità rotonda. E’ anche attrice dote fondamentale per il ruolo di Begbick. Ha un bel timbro brunito verdiano».

Il cast è guidato dal tenore Chris Merritt veterano del palcoscenico. Nel foyer non mancano gli amarcord di un «Elisir» di cui fu protagonista al Regio nel 1988. Ora Nemorino è cresciuto e qui in Mahagonny si presenta come un criminale.

«Merritt è un leone. Certo la voce non ha più lo smalto di un tempo ma è fantastico in questo ruolo dove mette in luce le sue caratteristiche di grande artista - dice Carlo Allodi - Bravi anche gli altri in particolare il tenore Hächler che ha voce robusta quasi baritonale. Forse qualche acuto è un po’ appannato ma ha preso freddo in Alaska! Il personaggio si rende conto che la felicità e la libertà che ha comprato con i soldi non sono autentiche, è portatore di un bel messaggio». Alcune signore commentano le coreografie che ricordano Fred Astaire «sono sexy ma mai volgari - dice Claudia -. Non ci scandalizzano i seni nudi e i perizomi, ci scandalizziamo di più quando i seni nudi sono gratuiti e le regie non hanno senso». Applaudito il lavoro del maestro Franklin e racconta Marco: «bravo il direttore si è mosso bene in questa partitura vulcanica. Mi è piaciuta Jenny, che canta l’unico pezzo che conoscevo dell’opera «Moon of Alabama». Usciremo soddisfatti e con molti spunti che ci lascia Brecht, per esempio che «la vita è la cosa che conta di più e non dura a volontà».

Ilaria Notari

La parola al Loggione
Bisognerebbe, innanzi tutto, fare mente locale su quanto quest'opera sia moderna, forse tanto da essere sconvolgente. Quanto? Forse basta tenere presente che Brecht e Weill avrebbero potuto essere, temporalmente, i genitori della gloriosa generazione di loggionisti che ormai non può più partecipare agli spettacoli del Regio. Tenendo questo a mente si riesce a collocare questo titolo che è quasi in prossimità del proprio centesimo anniversario. Eppure, ieri sera di loggionisti allo spettacolo ne sono mancati parecchi e all'ultimo piano del Regio non si potevano contare molti più spettatori di una cinquantina. Pochi, ma comunque ben preparati al tipo di spettacolo che avrebbero visto: chi non ha potuto lasciare a casa le polemiche è rimasto direttamente a casa. Così gli spettatori hanno dimostrato di apprezzare lo spettacolo senza farsi troppi problemi. All'intervallo, a dire il vero, c'è stato anche un po' di fermento per la curiosità per le scene di nudo che erano state annunciate e che alcuni hanno potuto anche già vedere alla prova generale.

«Sembra di essere un po' più al Ritz che al Regio - scherza un signore - ma a parte questo è uno spettacolo molto interessante e apprezzabile dal punto di vista musicale e in ogni caso in questa stagione lirica è quello che mi è piaciuto di più».

«Per certi aspetti - azzarda un altro - per quel che l'opera di Brecht e Weill vorrebbe esprimere, l'allestimento è fin troppo elegante sia dal punto di vista musicale, con un timbro orchestrale forse eccessivamente pulito, sia della scena con prostitute troppo raffinate».

«È stata la seconda opera alla quale ho portato il mio compagno - spiega un giovane soprano tra il pubblico - e anche nell'altra, un "Rigoletto", c'erano scene di nudo. Lui è molto geloso - scherza - e non so avrà piacere che continui a frequentare il teatro».

Non manca chi è tornato a rivedere volentieri e con curiosità lo spettacolo dopo aver assistito alla prova generale che in effetti non rappresentava una rappresentazione completa in quanto il personaggio di Jenny, non certo secondario, è stato cantato dalla barcaccia, senza apparire sulla scena.

«In un certo senso non mi è dispiaciuta questa soluzione - spiega lo spettatore - perché così fuori scena il personaggio di Jenny era in un certo senso più minaccioso e incombente, se ne avvertiva la presenza in modo inquietante. Il soprano che è stato chiamato per questa recita certamente è molto brava e non si può dire non sia convincente nel proprio personaggio, ma lascia troppo poco all'immaginazione». «Si capisce bene che questo spettacolo sarà replicato a Reggio - scherza un ultimo - e il verso "teste quadre" è un omaggio agli spettatori di Reggio».

Giulio Alessandro Bocchi