Intervista su lingua e politica
Cortelazzo: «Il “politichese” è morto. E il “gentese” non sta bene
Michele Cortelazzo – professore ordinario di linguistica italiana a Padova e direttore della Scuola galileiana di Studi superiori sempre a Padova, nonché membro dell’accademia della Crusca – è uno dei quattro linguisti che – grazie all’organizzazione del Teatro due e alla supervisione scientifica di Luca Serianni – ha collaborato al progetto «Volgare illustre. Ragionamenti sulla lingua». Un progetto che ha visto impegnati oltre 600 studenti di 24 licei classici di tutta Italia (per Parma, ovviamente, c’era il liceo Romagnosi) e che si concluderà il 14 e 15 maggio con una due giorni di studio proprio qui a Parma. Gli altri docenti coinvolti, oltre a Cortelazzo (lingua e politica) e Serianni (lingua e dialetto), sono Gianluca Lauta (lingua e tecnologia) e Cecilia Robustelli (lingua e Genere). L’idea era quella di fargli un’intervista sui rapporti tra lingua e politica anche tenendo conto dell’enorme diversità degli stili comunicativi – evidente in questi giorni tribolati – tra Vladimir Putin e Volomydyr Zelensky, ma il professor Cortelazzo, con molto garbo, si tira fuori. Non conosce abbastanza i testi di Putin e Zelensky e, inoltre, nota, «non c’è solo una differenza linguistica tra le varie lingue, ma anche una differenza tra gli stili retorici nei vari paesi» che rende estremamente complesso affrontare l’argomento senza una preparazione adeguata e senza conoscere il corpus di testi di riferimento. Così decidiamo di focalizzare la conversazione sull’Italia, non senza parlare del rapporto tra lingua e totalitarismo.
Seguendo la suggestione di Victor Kemperer e del suo «Lingua Tertii Imperii», esiste uno stile linguistico della dittatura o, meglio, del totalitarismo? Penso soprattutto alla sostituzione di parole semplici (es. «guerra») con costrutti linguistici complessi («operazione militare speciale») che in un certo modo anestetizzano i pensieri…
«La lingua del totalitarismo, più di altre espressioni della lingua della politica, esemplifica il problema per il quale Carofiglio ha trovato una bellissima definizione che non è la “manipolazione delle parole”, ma la “manomissione delle parole”. Una definizione molto azzeccata. Ma non dobbiamo attribuirla tutta al totalitarismo. Prendiamo il caso di Putin che fa oscurare una parola come guerra che è in sé e per sé connotata negativamente. La guerra – al di là delle ideologie del passato, tipo “guerra purificatrice dei popoli – ricorda concetti negativi, come sopraffazione, il lutto ecc. Quindi si usa un eufemismo. Cioè qualcosa che maschera e attenua il contenuto negativo. Questo, però, succede un po’ in tutta la lingua politica per i concetti che sono sgraditi. Nel totalitarismo, allora, c’è qualcosa di più. Il titolare del potere può imporre l’uso linguistico, mente in una democrazia si può solo proporlo. In qualche modo quell’eufemismo in democrazia caratterizza lo stile linguistico di quel particolare politico. Nel totalitarismo, invece, diventa norma in modo coercitivo. Si riduce la libertà linguistica, che una delle principali espressioni della libertà del singolo. Se, in un regime democratico, una parte maggioritaria della popolazione usa una determinata espressione, resta comunque la possibilità di dissentire. È un po’ quello che sta succedendo adesso. Le voci critiche sulla guerra – quelle bizzarre e quelle più sensate – sono in qualche modo osteggiate dall’opinione pubblica. Ma le possiamo comunque sentire, anche se le giudichiamo assurde e fuori dalla realtà. In un regime totalitario, invece, c’è un’unica voce che diventa un’unica voce lessicale e così la costruzione retorica che sta dietro all’espressione linguistica diventa forma di conoscenza generale e quindi orienta l’opinione di tutti».
Ritornando al linguaggio della politica in Italia, quando e perché c’è stato il passaggio dal «politichese» al «gentese»?
«La svolta è il ‘94, cioè il passaggio tra la Prima e la Seconda repubblica. È stato un passaggio di cultura politica, visto che il sistema statuale è rimasto invariato. C’è stata la dissoluzione dei partiti precedenti, per motivi molto concreti come la corruzione, ma che aveva certamente come portato simbolico fortissimo anche il cosiddetto “politichese”. Quando Silvio Berlusconi ha portato all’incasso il guadagno politico della dissoluzione dei partiti della Prima repubblica, da esperto di comunicazione, ha capito che bisognava anche cambiare stile linguistico. Si parlava di scollamento tra paese reale e paese legale. Il mondo politico veniva percepito con regole proprie e anche un linguaggio proprio. Il tentativo – in parte riuscito e in parte no – è stato quello di rompere la barriera tra lingua reale e lingua legale, quindi di parlare di politica con la lingua della gente. Ecco il “gentese”. Ma è stato anche un cambiamento di mezzi di comunicazione delle idee politiche. Alla piazza, ma anche alla radio e alla tv ancora ingessata, si sono sostituiti il talk show. Quindi il cambiamento linguistico va visto anche in relazione al cambiamento dei mezzi di comunicazione. Facciamo un passo indietro: Mussolini senza l’amplificazione della voce e la radio avrebbe perso gran parte della sua potenzialità oratoria. Senza questi strumenti tecnici avremmo una visione del tutto diversa della retorica mussoliniana. E così è successo nel ‘94. Allo stesso modo è successa una cosa analoga attorno agli anni Dieci di questo secolo con passaggio dal “gentese” a socialese”. A questo punto la tv è stata scalzata dai social network ed è di nuovo cambiata la lingua».
Mi pare sia arrivato il momento, quindi, di parlare di Beppe Grillo e dei suoi stilemi. Ma forse è meglio chiamarlo “blogghese”…
«Sì, possiamo chiamarlo anche così. Sono fenomeni che hanno una velocità di evoluzione molto maggiori di quelli di un tempo. Su Grillo c’è anche un fenomeno parallelo. Cioè la “spettacolarizzazione”, che aveva già avuto un precedente in Bettino Craxi. La politica non è più istituzionale, fredda, ingessata, ma diventa essa stessa spettacolo. Il primo a capire questa cosa è Craxi e, in modo diverso, Marco Pannella. È con loro che è cambiato tutto. Prima tutti i politici – da Giorgio Almirante a Enrico Berlinguer – avevano tutti lo stesso stile comunicativo, sia pure con variazioni interne. Lo stile era quello del comizio, del discorso parlamentare e della tribuna politica. È arrivato Pannella, il primo grande riformatore della comunicazione politica. Poi Craxi. La famosa battuta sui “nani e le ballerine” aveva dietro tutto il lavoro fatto sulla spettacolarizzazione e la personalizzazione della politica. Quello che succede con Grillo, ma anche con Zelensky, è che non è più il politico ad assumere atteggiamenti da uomo di spettacolo, ma l’uomo di spettacolo stesso che diventa un politico. Questo è successo anche negli Stati Uniti, per la prima volta con Ronald Reagan. Un attore che diventa presidente portandosi dietro il prestigio comunicativo che aveva acquisito nella sua attività professionale. La caratteristica di Grillo è che certe sue abitudini linguistiche, denigratorie, parodistiche e sarcastiche che facevano parte del suo bagaglio linguistico professionale, diventano strumento diretto per fare politica. Quindi partiamo dal politico che assume modi dello spettacolo per arrivare all’uomo di spettacolo che trasferisce il suo stile nella politica. Grillo non è il rappresentante del “blogghese”, ma la tappa ultima della spettacolarizzazione della politica».
Gianpietro Mazzoleni, in effetti, parla di «politainment», facendo una crasi tra politica ed «entertainment», cioè spettacolo. O meglio di «politica pop».
«Certo, prendiamo per esempio i talk show. Il fatto che si vada a cercare la rissa, che non aiuta a diffondere le idee, significa che l’imperativo è andare a cercare spettatori, fare share. Come una qualunque trasmissione di spettacolo. La trasmissione politica ormai mescola i generi, diventa una trasmissione di varietà. E per fare audience non basta la presentazione più o meno argomentata di temi politici. Ho bisogno della rissa, perché la rissa fa numeri. Così i politici a furia di usare stili da varietà sono stati surclassati da un attore vero, cioè Grillo. Tra l’altro Grillo ha resuscitato il comizio. In questo modo ha bypassato la tv. Da una parte usando la Rete, dall’altra usando la piazza. In questo modo però tutto è diventato molto verticale, cioè verticistico, visto che il rapporto, mediato dalla Rete, è tra singoli individui e il leader, non è più mediato dalle forme classiche di socializzazione politica.
Ma veniamo a Salvini e i social. Un modello che fonde messa in scena dell’intimità e strumenti professionali per analizzare le dinamiche di Internet.
«Anche lui mantiene il doppio binario tra il comizio e la Rete. Nel periodo d’oro, prima della crisi di Morisi, la comunicazione in rete di Salvini era da una parte fortemente artefatta, cioè seguiva in modo professionale gli umori dei social. Per questo era non era coerente. A parte il tema dell’immigrazione c’erano contraddizioni evidenti perché si rispondeva in modo quasi istantaneo alle esigenze che arrivavano dal suo elettorato potenziale. Però era una comunicazione efficace. Dall’altra parte come faccio a tenermi in contatto con l’elettorato mascherando lo sforzo enorme di comunicazione che in qualche modo rende artefatto il mio discorso? Uso l’espressione estrema del “gentese”. Da qui i post su cosa mangia a colazione. Si tratta di una comunicazione fatica, per tenere il canale aperto con i follower. Poi faccio pervenire il messaggio politico giocando sul contrasto tra buonsenso – Salvini usa tantissimo questa espressione – e il modo “artificiale” con cui i politici vedono le cose. E così salta fuori il “roba da matti” che significa che io, con il mio sapere comune, trovo le soluzioni, mentre gli altri – seguendo percorsi istituzionali – prendono decisioni incomprensibili. Il “gentese” all’ennesima potenza. L’idea di fondo è che il popolo saprebbe bene come risolvere le situazioni Ma in realtà si semplificano solo i problemi. E quindi arriviamo al problema del populismo, cioè la confusione tra semplicità e semplicismo. Semplificare è un’operazione democratica. Ma posso cadere nel semplicismo, cioè nell’affrontare con metodi inadeguati, perché banalizzanti, problemi complessi. È difficile stabilire dove sta il confine, ma il rischio è questo».
Un’ultima domanda sullo stile comunicativo di Mario Draghi e di Giuseppe Conte.
«Entrambi tradiscono la loro origine non politica, perché entrambi non rientrano in quello che abbiamo appena detto. Conte, soprattutto durante la pandemia, ha mostrato il limite di modelli contraddittori tra di loro. Da una parte lui ha sempre tradito l’origine giuridica della sua formazione, dall’altra si è fatto ammaliare dal suo Morisi, cioè Rocco Casalino. Per esempio, il famoso “Stiamo distanti ora per potersi riabbracciare in futuro” dimostra come la fusione tra argomenti tecnico-giuridici (i famosi Dpcm, i “ristori” ecc.) e la creazione di empatia non era andata a buon fine. Suonava falsa. Sembrava una cosa appiccicata perché il vero Conte è quello che parla con uno stile da giurista. Ora sta cambiando e sta diventando un politico. Anche nel vestire sta cambiando. Ora è più spesso in camicia. Ma il giurista traspare sempre. Draghi è veramente tecnico, ancora più tecnico di Carlo Azeglio Ciampi, che aveva una formazione umanistica. Draghi è piatto anche nell’eloquio: parla come se facesse una relazione a un Consiglio di amministrazione. Ha un punto forte nella sintassi. Lui fa sempre frasi brevi, che puntano ad un unico concetto. Per la chiarezza è di scuola anglosassone. Però la sua empatia è vicina a zero. Conte ha cercato di compensare questa mancanza, non sempre riuscendoci, però ci ha provato. La retorica di Conte amplifica, Draghi invece, ha una secchezza esemplare. Una volta ho preso un discorso di Draghi (che era ancora Governatore di Bankitalia) durante un master di traduzione e ho chiesto se fosse un originale in italiano (come in effetti era) o una traduzione. E tutti hanno risposto che era una traduzione dall’inglese. E invece no. È di una laconicità impressionante. Draghi ha questa sintesi che è assolutamente alternativa a qualsiasi scuola di discorso politico. Basti pensare alle accumulazioni di Salvini. L’idea, per Salvini, è quella di abbracciare la realtà aggiungendo una pletora di elementi. Draghi fa l’opposto: tenta di abbracciare la realtà trovando un concetto che la sintetizza».