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Che fascino quei «Giganti del ring»
Muhammad Alì sul ring aveva stile e una classe infinita. Sublime. Un innovatore che di sé diceva di volteggiare come una farfalla e di pungere come un'ape. Grande tra i grandi, questo è certo. Ma non il più grande in assoluto.
Joe Frazier, invece, mostrava sempre un coraggio fuori dal comune: pugno pesante, in anni dove un incontro clou di boxe riusciva ancora a paralizzare il mondo intero.
Venne poi il tempo di Larry Holmes e del suo celebre “marchio di fabbrica”: un jab sinistro letale per chi lo riceveva.
Mike Tyson aveva la fama del cattivo, ma anche la “fame” giusta per imporsi sulla scena con una furia agonistica che per un certo periodo, prima della parabola discendente innescata da vicende personali che definire travagliate sembrerebbe quasi riduttivo, gli aveva permesso di conquistare il titolo mondiale a soli 20 anni e 5 mesi (il più giovane in assoluto), di unificare successivamente la corona spezzettata in tante sigle e di difenderla per sei volte.
Sono ritratti di campioni e leggende fuori dall'ordinario quelli “dipinti” da Claudio Colombo, autorevole firma del Corriere della Sera, tra le pagine del suo “Giganti del ring” (Edizioni inContropiede): cinquanta pesi massimi che hanno fatto la storia di questa disciplina - dalle origini praticamente ai giorni nostri -, raccontati con passione e competenza, attraverso le loro imprese sportive e le complesse vicende esistenziali, quasi sistematicamente caratterizzate da un vissuto difficile alle spalle, da una fragilità nascosta dietro una montagna di muscoli.
Montagna, già. E ci viene subito in mente Primo Carnera, altra figura mitica del pugilato. «La montagna che cammina» lo chiamavano: un chiaro riferimento alla sua stazza imponente (alto 2 metri, pesava 120 chili). Non un fuoriclasse, il maciste friulano. «Ma neppure uno sprovveduto» rileva Colombo nel volume, e dotato di «una buona padronanza sul ring». Per qualcuno, Carnera non era altro che un bluff: un pugile manovrato dalla mafia italo-americana che, negli anni Trenta, dettava legge nella boxe. Ma il titolo mondiale dei massimi ai danni dell'allora campione in carica Jack Sharkey, nel giugno del 1933 a Long Island City, Carnera lo conquistò con pieno merito e con «un montante destro di rara bellezza e precisione».
Chi ha una visione superficiale delle cose, vedrà nel pugilato solo violenza e una ferocia inaudita. Chi non si ferma all'apparenza, invece, potrà scorgere in tale contesto anche sentimenti autentici, profondi e duraturi. Amicizia, in una sola parola. Come quella tra Joe Louis, dai più considerato il miglior pugile della storia, e Max Schmeling, il “pugno di Hitler” che tuttavia – viene raccontato nel capitolo a lui dedicato da Colombo – seppe comportarsi secondo coscienza quando si rifiutò «di licenziare il suo manager ebreo» o quando «durante la famigerata Notte dei cristalli salvò i due figli di un amico che stavano per essere deportati in un campo di concentramento». Si erano affrontati sul ring, Louis e Schmeling, il 22 giugno 1938, allo Yankee Stadium di New York. Bastarono poco meno di due minuti a Louis per spazzare via il tedesco, chiudendone virtualmente la carriera. Ma quando Schmeling finì povero in canna dopo la guerra, fu lo stesso “bombardiere bruno” a venire in suo soccorso, procurandogli un lavoro per conto di un colosso che produceva una famosa bibita americana. Un favore che Schmeling avrebbe ricambiato in futuro, pagando le cure al vecchio rivale, ritrovatosi senza più un dollaro in tasca.
Due curiosità sono contenute nella parte che “Giganti del ring” riserva a Rocky Marciano. La prima riguarda il nome del pugile di origini italiane: «Un capolavoro inconsapevole di uno speaker incapace di pronunciare le troppe sillabe» condensate in Rocco Francesco Marchegiano, come risultava registrato all'anagrafe. Anche la seconda curiosità si lega ad un nome: Suzie Q. Era il diretto destro di Marciano, così identificato dal suo allenatore. Charlie Goldman lo urlava dall'angolo, nel momento topico del match: «Colpiscilo con Suzie Q». E per l'avversario non c'era scampo. Secondo Colombo, Marciano aveva «una tecnica basica e una potenza devastante, conosceva un solo modo di fare boxe: aggredire l'avversario, mettergli pressione, levargli il respiro». Il suo score racconta di 49 vittorie su altrettanti incontri disputati, addirittura 43 ottenute prima del limite. Un record per un campione che seppe riconoscere il momento in cui dire basta.
Rispettato come pugile, mai amato come uomo: Sonny Liston, campione del mondo tra il 1962 e il 1964, da bambino era il terrore dei negozianti. Rapinava con la pistola in pugno e, all'occorrenza, sparava anche. La chance mondiale per lui arrivò contro Floyd Patterson, demolito in due match organizzati a dieci mesi di distanza l'uno dall'altro. La sconfitta contro Cassius Clay fece di nuovo precipitare Liston all'inferno. Non riemergerà più.
C'è sempre Clay/Alì sulla strada di un altro “gigante”: George Foreman. “Rumble in the jungle” il match della storia tra i due, celebrato nell'ottobre del 1974 a Kinshasa, capitale dello Zaire, con una borsa fissata in 5 milioni di dollari a testa. Foreman picchiò forte. Per sette lunghe riprese. Alì lo fulminò all'ottava, con una perfetta combinazione delle sue. Foreman tornò sul ring a 38 anni suonati. A 45 – era il 1994 – si laureò campione Wbo e Ibf, mandando al tappeto Michael Moorer.
Fra gli eroi trova posto un altro Michael, Spinks, capace nel 1985 di sovvertire i pronostici sconfiggendo l'allora imbattuto Larry Holmes, dopo essersi sottoposto a una dieta ingrassante da 4500 calorie giornaliere, pur di raggiungere la condizione di peso necessaria per l'incontro. Il suo ultimo azzardo? Gli costò carissimo. Sfidare un Tyson all'apice della sua carriera: dopo un minuto e mezzo dal suono del primo gong, era già tutto finito.
Ad affrontare Tyson ci andò molto vicino il “nostro” Francesco Damiani, secondo italiano (dopo Carnera) ad aver indossato la cintura dei massimi, a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta. Se ne parlò a lungo, di quel possibile confronto. Ma non se ne fece nulla. Meglio così, per Damiani? Chi può dirlo. Colombo non è affatto sicuro che il romagnolo «avrebbe recitato la parte di vittima sacrificale» al cospetto di Iron Mike.
Fra i giganti non possono mancare Evander Holyfield e Lennox Lewis.
Da sindaco di Kiev, Vitali Klitschko è oggi uno degli uomini simbolo della resistenza ucraina contro la Russia. Una carriera lunga 16 anni, la sua, conclusa nel 2012 senza mai andare al tappeto (per ferita, le uniche due sconfitte) e dopo aver conquistato a più riprese i titoli Wbc e Wbo. Quella di Klitschko è solo la parte più recente di un'avventura pugilistica entusiasmante, che abbraccia oltre tre secoli di storia. Il pioniere e «primo pugile a fregiarsi del titolo di campione del mondo», racconta Colombo, fu l'inglese James Figg, vissuto nel Settecento, Niente round né categorie, niente arbitro o giudici, totale assenza di regole: all'interno di un cerchio (da qui il nome ring) - che solo più avanti sarebbe diventato un quadrato - si combatteva a pugni nudi.
Le prime regole per rendere meno selvaggia la disciplina pugilistica sarebbero arrivate qualche anno più tardi, grazie al londinese Jack Broughton. Disperato dopo la morte dell'amico George Stevenson, dopo un loro incontro, Broughton pubblicò nel 1743 quella che per quasi un secolo sarà la “Magna Charta” del pugilato. Sette regole: fra queste, il divieto di colpire l'avversario caduto a terra e l'interruzione del match. Chi veniva colpito aveva mezzo minuto di tempo per rialzarsi e tornare al centro del ring, laddove si sentisse pronto a riprendere il combattimento. Aneddoti, volti, nomi affascinanti, sfide epiche: la grande boxe è qui.