C'era una volta

Quando in Cittadella si mieteva il grano

Lorenzo Sartorio

La Cittadella è sicuramente il parco pubblico cittadino più amato dai parmigiani. Figuriamoci da chi è nato e cresciuto all’ombra della fortezza farnesiana! I bambini ed i ragazzi «anni Cinquanta», che avevano meno distrazioni e soldi in tasca di quelli di adesso, erano molto più attenti ai moti della natura anche perché vivevano in simbiosi con le stagioni, giocavano all’aperto, l’inquinamento non si sapeva nemmeno cosa fosse come certi pericoli ai quali, ora, possono incorrere i ragazzi, specie più giovani. Ed allora, per i ragazzi di Viale delle Rimembranze e dintorni, la Cittadella, era un pianeta tutto da esplorare con quelle misteriose gallerie che alcuni tentarono di percorrere emulando Sussi e Biribissi, di collodiana memoria, per recarsi al... centro della terra. Ma, la Cittadella, aveva, oltre che i profumi dei suoi fiori come le violette e le serenelle che, in primavera, ammantavano prati e siepi, anche i suoi suoni.

Ad esempio, chi la frequentava alla mattina di buon’ora, poteva avvertire il suono delle prime campane, come una di quelle del Duomo ( esattamente la «campana numero 5»), che iniziava a dare il buongiorno ai parmigiani alle 7.15 in punto come avviene tutt’ora. Prima della costruzione dei numerosi condomini attorno alla Cittadella, avvenuta agli inizi anni sessanta, si poteva scorgere, in tutta la sua bellezza, il campanile della Cattedrale come pure, sempre dal bastione posto sopra viale delle Rimembranze, quello dell’abbazia di San Giovanni (che riesce ancora a farsi vedere tra le piante e le case essendo il più alto della città).

Al vespro, invece, si potevano udire i rintocchi delle campane di San Pietro D’Alcantara, di San Sepolcro, ed anche quello della campanella dal suono lieve e garbato delle suore della «Céza dal Bambén». L’inquinamento acustico, a quei tempi, non esisteva, il traffico sullo Stradone era modestissimo, quindi i vari suoni si avvertivano con maggiore nitidezza come quello dei treni che transitavano della Stazione con il loro sferragliare sulle rotaie ed il loro inconfondibile fischio. Gli anziani della zona osservavano che, quando dalla Cittadella si udiva il rumore del treno, «cambiäva la stagión». Infatti, dopo poco, nuvole nere si avvicinavano e, su quella fettina di cielo che lambiva la Cittadella verso viale Solferino ed i giganteschi patriarchi arborei dell’Orto Botanico, appariva l’inquietante «Buz ädla Jacma». Altri suoni che si avvertivano nella fortezza farnesiana erano quello del cinguettio dei tanti uccelli.

Fino agli anni settanta le notti primaverili erano dolcemente accompagnate dal gorgheggio degli usignoli mentre le giornate invernali erano ritmate dal cinguettio dell’ «ozlén dal frèdd», la cinciallegra, chiamata anche «sibibì» per non parlare dello starnazzare della anatre selvatiche che, dal greto della Parma, facevano sosta in Cittadella nel prato situato proprio accanto all’ostello.

In estate, oltre il ritmare delle palline da tennis a contatto con le racchette dei giocatori che si esibivano nei sottostanti campi da tennis della «Raquette», si udivano anche gli spari del «Tiro al piccione» ubicato sul greto della Parma nei pressi di Via Po. Come pure, nelle serate canoniche, ossia il mercoledì, il sabato e la domenica si potevano udire le musiche confidenziali che provenivano dal dancing della «Raquette».

Alla mattina presto il «chicchirichì» dei galli dei numerosi pollai della zona era un classico. Un suono, quello del canto del gallo, che, anche oggi avverte chi, ad orari antelucani, frequenta il parco per la consueta corsettina. Adriano Catelli, che è stato, per 60 anni custode del parco, sostiene che il canto mattutino del gallo provenga da un pollaio, forse l’unico rimasto in città, ubicato dalle parti della Villetta.

Pochi forse sanno, ovviamente per motivi anagrafici, che l’antica fortezza farnesiana, dopo essere stata caserma, nell’immediato dopoguerra, quando i militari la abbandonarono, per qualche anno, fu un angolo di campagna che iniziava già da via Torelli con tanto di campi coltivati.

«La gestione degli spazi verdi fu assegnata ad un agricoltore, tale Ziveri - ricorda Adriano Catelli - il quale seminava erba medica e frumento, oltre disporre di un bel frutteto». Ed era proprio giugno il clou per la mietitura in Cittadella che si effettuava ovviamente a mano con la «misòra», una sorta di falcetto appositamente concepito per mietere. Lo Ziveri, per il rito della mietitura, assoldava sei o sette persone che, in un paio di giorni, mietevano i due bastioni coltivati a frumento. Si trattava del bastione che, da alcuni anni messo a nudo, mostra i vari camminamenti militari e, l’altro, dove sorge la Palazzina San Giorgio e che, un tempo, ospitava anche un discreto frutteto. All’ora del pasto, quando la campana della «Céza dal Bambén» di Barriera Farini suonava il tocco, i lavoranti e le lavoranti, deponevano la falce e consumavano un frugale pasto sotto l’ombra amica delle piante secolari mentre dagli orti circostanti salivano profumi di verdure fresche e di mangiari robusti che provenivano dalle casupole degli ortolani.

Si andava avanti fino a sera quando il sole, che era spuntato di buon mattino dietro al Tardini, si inabissava alle spalle di viale Solferino. Dopo essersi ristorati sotto la fontana, i lavoranti, facevano ritorno a casa scortati da voli di lucciole che, proprio durante il raccolto, vivevano i loro giorni più belli. Al termine dei due o tre giorni di mietitura i covoni, assiepati ordinatamente ai bordi dei campi, venivano caricati su un traballante carro e portati in un’aia per la trebbiatura mentre, ai lavoranti, oltre a quei quattro soldi che si erano sudati, veniva concesso di spigolare per raccogliere quelle spighe che erano rimaste sul campo.

Con quelle rimanenze stipate dentro un sacco, il mugnaio, avrebbe dato in cambio un mezzo sacco di farina preziosissima per fare il pane finalmente bianco, la sfoglia e le torte. E così, dopo la mietitura, proseguiva, sonnolente, la calda e autarchica estate della Cittadella la cui colonna sonora era costituita dal cinguettio degli uccelli, dal garrire delle rondini e dal frinire delle cicale alle quali davano il cambio i grilli quando la luna sciabolava d’argento le torride notti parmigiane.

Lorenzo Sartorio