50 km di marcia alle Olimpiadi di Helsinki

70 anni fa l'oro di Dordoni

Giorgio Lo Giudice

Settanta gli anni ormai trascorsi da quando Pino Dordoni si era affacciato alla porta di maratona in terra finlandese per andare a conquistare un oro olimpico ora nella storia. Una vittoria frutto di tanta fatica e facendo seguito ad una tradizione del tacco e punta, nata con gli Altimani ed i Frigerio proseguita con il campione piacentino che quel 21 luglio andava a vincere nello stadio di Helsinki l’oro dei 50 chilometri di marcia, con oltre due minuti sul ceco Dolezal, altro grande specialista della distanza, con il nuovo record olimpico. Erano i Giochi dei coniugi Zatopek, lui a conquistare tre incredibili successi nei 5 e 10000 e nella maratona e la moglie Dana ad aspettarlo nello stadio, mente nel frattempo si aggiudicava la gara di giavellotto.

Nato a Piacenza, i suoi anni giovanili poco lasciavano pensare ad un futuro fatto di vittorie su tutte le strade italiane e del mondo, culminando con l’alloro olimpico. Eppure la storia sia pure ufficiosa parla di 502 vittorie in gare regionali, nazionali ed internazionali, sulle circa 750 da lui disputate. Pino aveva iniziato presto e si era messo in luce dimostrando capacità e grande tecnica. Aveva superato le disavventure della guerra trovandosi prigioniero dopo il 1943, quando aveva aderito alla Repubblica Sociale, per fortuna senza conseguenze. Aveva vinto tanto ma, bravura a parte, di lui si discuteva come esempio di stile, infatti non si ricorda il suo inciampare negli strali dei giudici, inflessibili custodi delle regole e severi distributori di ammonizioni e squalifiche. Diventato poi dirigente e tecnico del settore, aveva lo stesso impegno maniacale dei particolari di quando faceva l’atleta. Ricordo se ci trovavamo ai raduni della nazionale che gli dicevo scherzando di essere più “morbido”. E la risposta era sempre la stessa: «Dobbiamo dimostrare di saper meritare la fiducia che viene posta in noi con i fatti, e questi o sono giusti o sbagliati, non ci sono mezze misure». Aveva ragione lui ed allora per farlo arrabbiare, arrivava qualche scherzo fuori programma. Il più gettonato? Aggiungere una I alla targa PC della sua auto. Non la digeriva bene, poi però finiva tutto con una grande risata. Di quell’affermazione di cui oggi si festeggiano i 70 anni, hanno scritto in tanti, tra cui cantori famosi come Gianni Brera o Gian Maria Dossena. Oppure Bruno Roghi e Luigi Ferrario, fino ad Italo Calvino. Lui Pino, anche negli anni successivi, quando diventato tecnico ricordava quei momenti, lo faceva con serenità e con la massima modestia. Solo qualche sfottò riusciva a scuoterlo un pò. In Finlandia era tra i favoriti, i nomi ricorrenti erano cinque tra cui lo svedese Ljunggren, l’ungherese Roka ed il suo compagno Laszlo, animatore della prima parte della gara, poi inglesi e russi. Lo svedese generoso ma poco accorto, si era messo a tirare dopo i 20 chilometri, pagava con una crisi al quarantesimo e Dordoni rimasto al coperto, si ritrovava solo al comando. Si dice che Stassano e Oberweger il primo dirigente il secondo tecnico e supervisore della nazionale che lo incitavano, si sentissero rispondere con un memo: “Italia va bene ma ricordiamoci il premio promesso”. Battuta ovviamente mai confermata, anche sotto tortura o giuramento, da nessuno dei protagonisti, ma pare molto vera. C’era in ballo, allora non erano fissati i premi come accade oggi in modo ufficiale, un milione di vecchie lire in caso di vittoria. Un piccolo gruzzolo, che farebbe sorridere, siamo a livello di circa 500 euro, che comunque venne giustamente elargito. Giulio Onesti presidente del Coni, era uomo di parola e questo Pino lo ha confermato.

Di Brera ci permettiamo di riprendere alcune frasi significative, di quel giorno straordinario, pensiamo ne sarà anche lui felice: «Caro vecchio Dordoni piacentino, vorrei che sul nostro fiume, questa sera, i paesani accendessero fuochi di festa come dopo le antiche regate vittoriose. Vorrei che così celebrassero l’inarrivabile campione di uno sport che si addice alla nostra modestia di un francescano sport, per il più francescano dei popoli. Tu entravi a passo ancora allegro, salutando la folla, e io questo pensavo nell’ora del tuo trionfo. Poco giova, ahimè, la grazia, negli stadi, poco o nulla lo stile, molto la forza, che non tutti abbiamo, noi gente vecchia di troppi secoli, noi italiani che forse portiamo il peso troppo grave della nostra storia. Tutto questo, Giuspai, ragazzo del mio paese, pensavo mentre allegro marciavi l’ultimo stadio. Tanto bene mi fece vederti salire modesto il podio del vincitore, lo stesso su cui O’Brien dalle spalle di toro era salito poc’anzi, lo stesso di Zatopek. Suonava l’altoparlante al pubblico ammirato che avevi, marciando, stabilito la nuova migliore prestazione mondiale, ma non tanto mi commosse saperti riconosciuto grandissimo nella più povera ma anche nella più umana delle prove, quanto vedere Kressevich barcollare spossato sul traguardo. Risuonavano in quella le note del nostro inno. Pencolò fin quasi a stramazzare Kressevich di Trieste, cadaverico in viso: e giunse uno squillo fino a lui che moriva, allora fu come afferrato d’incanto e sostenuto. S’irrigidì dov’era in mezzo alla pista e si volse a cercare la bandiera. Quest’atto, Dordoni, valeva quasi il tuo record. E poiché sentivo salire agli occhi le lacrime, gridai per non piangere a Kressevich che sulle piante infuocate a stento si muoveva, verso te per abbracciarti. Anche per Kressevich dovrebbe brillare un fuoco, Dordoni, questa sera sul nostro fiume natio».

Per la cronaca Giuseppe Kressevich, classe 1916, era l’altro italiano, che in 4h44:30 si classificò poi decimo ad oltre sedici minuti da Dordoni. La classifica completa, si fermò a Soderlund, ventottesimo, sessantatré minuti dopo. Gli altri squalificati o ritirati. All’arrivo di Dordoni c’era nella parte bassa della tribuna a tifare, la Nazionale italiana di calcio, da poco travolta da una delle più potenti macchine da guerra mai allestite nella storia dello sport calcistico, l’Ungheria di Puskas, Kocsis, Hidegkuti, Bozsik. Ma questa è un’altra storia.

Giorgio Lo Giudice