Sara Fantini
«La mia annata da dieci»
Sara ha già archiviato tutto. I record italiani battuti in sequenza, tre in meno di un mese, il quarto posto ai mondiali a stelle e strisce, lo storico podio di Monaco. Ha già voltato pagina e guarda al futuro questa ragazza metà fidentina e metà salsese che è ormai entrata nel gotha di una disciplina che ha un nome curioso, lancio del martello, nonostante oggi l'attrezzo da scagliare lontano non sia più quello ma una palla metallica che pesa quattro chili. Il martello lo si usava nella arcaica versione di questo sport anche se c'è qualcuno che continua a praticarlo, ad esempio nelle «higland» scozzesi.
La «nostra» Fantini, come nostre sono diventate atlete di livello europeo e mondiale da Ayo Folorunso a Giulia Ghiretti fino a Kiara Fontanesi, è rimasta comunque legata al territorio e non solo per la erre marcata, denominazione di origine che sul passaporto manco serve scrivere dove sei nata. Territorio dove è cresciuta con quel mix di forza ed esplosività che è ormai diventato il suo marchio di fabbrica anche fuori dalla pedana.
Torniamo alla notte di Monaco e a quel bronzo che è ormai entrato nella storia dell'atletica italiana. Come hai metabolizzato quei momenti?
«Ho metabolizzato il fatto di aver vinto un bel bronzo ma nel contempo di aver perso un bell'oro che era alla mia portata. L'approccio alla gara, soprattutto dal punto di vista psicologico, non è stato ottimale e mi ha portato a fare degli errori tecnici. A volte avere troppe certezze non aiuta anche se sono esperienze che ti aiutano a crescere. Resta comunque il fatto che sono molto contenta».
Non sei un po' troppo severa con te stessa?
«Non credo. Dico semplicemente che ho fatto una stagione da dieci, direi quasi perfetta. Ma oltre alle soddisfazioni e ai traguardi raggiunti è una stagione che mi ha insegnato anche qualcosa di meno positivo. Ha giocato molto la stanchezza visto che gli Europei sono arrivati al termine di una annata agonistica così intensa e ricca dal punto di vista emotivo e questo comporta un dispendio di energie davvero importante».
Il livello del tuo sport in Italia non è altissimo. Questo può crearti problemi nel percorso di crescita visto che non hai avversarie che possano competere al tuo livello?
«Sì e no. Facciamo uno sport individuale nel quale l'obiettivo non è tanto quello di vincere ma quello di superare i propri limiti, soprattutto mentali. Per questo si dice che lo sport sia una bellissima palestra di vita ed è assolutamente vero. Amo gareggiare in Italia e ho uno splendido rapporto con le altre atlete. Gli stimoli ci sono sempre al di là del valore delle avversarie. Semplicemente, in Italia non c'è la stessa pressione di quando partecipo a competizioni internazionali ma questo non vuol dire che viene meno la spinta agonistica».
Quindi il tuo più forte avversario sei te stessa?
«Quello sempre. Penso che anche nella vita sia così. In teoria siamo tutti compagni che camminano su strade parallele e allora si instaurano rapporti di amicizia o diverse e in quel caso magari ci si perde di vista. Ognuno di noi ha un percorso e i nemici, sportivamente parlando, non esistono».
Ti ricordi la prima volta che hai preso in mano quell'attrezzo che sarebbe poi diventato una sorta di protesi?
«Ero al campo di atletica di Fidenza e il mio primissimo allenatore, Walter Cino, mi disse di provare dopo aver sperimentato, senza grande successo, altre discipline come i 100 metri o il disco che non mi facevano impazzire. Appena ho preso in mano il martello e l'ho lanciato ho capito che per me era un movimento molto naturale, facile e fluido. Non dovevo neanche pensarci e la sensazione che mi ha dato da subito mi ha fatto progredire in quello che è poi diventato un percorso agonistico ma anche di vita».
Restando alla dimensione individuale, hai sofferto un po' il fatto che i tuoi compagni e le tue compagna praticassero altri sport magari più popolari?
«Il confronto con gli amici per fortuna l'ho sempre avuto e non ho mai dato importanza alla diversità dello sport praticato perchè comunque lo scambio di vedute e di opinioni c'è sempre stato ed è sempre stato molto costruttivo e importante per la mia formazione. Alla fine è determinante l'aspetto del come fai le cose e non che cosa fai».
Si parla molto in questi giorni dell'Italia multietnica che continua a raccogliere successi nello sport. E' un dibattito superato dalla realtà dei fatti visto che l'integrazione in tutti gli ambiti è ormai un processo che viaggia veloce e che è impossibile fermare?
«E' un'Italia diversa ma è un ventunesimo secolo diverso. Finalmente stiamo crescendo e dovremmo cercare di essere sempre più inclusivi anche alla luce di quello che è successo nel '900. Questa inclusività è una realtà fisiologica che ci deve essere e che è molto presente nello sport. Perchè lo sport è un bellissimo esempio di vita, un palcoscenico sul quale vanno in scena situazioni che poi si replicano, col tempo, anche nella società. Sono valori positivi in quanto la solidarietà a livello sociale ci dovrebbe far capire che non siamo soli e che abbiamo bisogno l'uno dell'altro. Quello dell'odio e della discriminazione non è un modello sociale che funziona. Condivisione e giustizia sono invece modelli adeguati a uno sviluppo armonico della società».
Sei nata a Fidenza ma sei cresciuta a Salso e per questo sei contesa fra le due realtà. Ma ti senti più fidentina o più salsese?
«Non so che cosa rispondere perchè per me i campanilismi non hanno molto senso. Se devo essere sincera sono quattro anni che vivo a Fidenza, sto per comprare casa qui e presto prenderò anche la residenza. Per cui se proprio devo rispondere alla domanda, qualche anno fa avrei detto salsese, oggi dico fidentina».
Al di fuori dello sport che cosa ti piace fare?
«Forse sarebbe più corretto chiedermi che cosa non mi piace fare. Adoro viaggiare, leggere, studiare, mi piace l'arte, sperimentare cose nuove come andare a cavallo ad esempio. Ho tanti interessi al di là dello sport. E' ovvio che l'attività agonistica assorbe moltissimo del mio tempo».
Stai ancora studiando?
«Sono iscritta alla Facoltà di Lettere dell'Università di Parma e spero di finire il percorso».
E stai già pensando a cosa potrai fare dopo e cioè alla fine della tua carriera sportiva?
«L'atletica è bella perchè ti concede tempo. Qualche idea però ce l'ho anche se questo orizzonte lo vedo ancora relativamente lontano. Mi piace la scrittura e mi piacerebbe farla diventare un vero e proprio lavoro. Mi intriga anche il mondo del giornalismo. Ma potrei anche fare il carabiniere. Chissà...»
Tuo papà Corrado è stato finalista olimpico nel lancio del peso nel e 1996 mentre tua mamma Paola era una giavellottista e specialista delle prove multiple. Quanto hanno influito sulle tue scelte i trascorsi sportivi dei tuoi genitori?
«Non in modo determinante ma sicuramente hanno influito. Mi hanno sempre lasciato molto libera di sperimentare , di scegliere e di capire. Il punto centrale è che quando ho deciso di iniziare a fare atletica ho avuto netta la sensazione che lo sport dovesse per forza far parte della mia vita. E' stato sempre importante l'insegnamento che mi hanno dato i miei genitori pur nella consapevolezza di essere libera di fare le scelte che più mi intrigavano».
Il tuo menù ideale?
«Dico un solo piatto da emiliana doc quale sono: gli anolini in brodo. Per me San Donnino con un bel piatto di anolini è il massimo della vita. Poi i piatti tipici del Natale che è la festa che preferisco in assoluto».
Tornando allo sport, adesso l'obiettivo è quello dei cerchi olimpici e di Parigi 2024. Quello potrebbe essere il momento della tua consacrazione a livello mondiale.
«Step by step. Certamente le Olimpiadi sono l'obiettivo di ogni atleta e il lavoro per cui si fanno tanti sacrifici. Adesso però penso a riposarmi e a ricaricare le pile. Poi comincerò a pensare al prossimo appuntamento che sono i Mondiali di Budapest».
Carlo Brugnoli